Fino a quando a denunciare un sempre meno strisciante e sempre più aggressivo sentimento anti-lombardo ci pensa uno come il sottoscritto, forse non è il caso di preoccuparsi. Ma quando a farlo è un giornalista autorevole, pacato ed establishment come Ferruccio de Bortoli, la questione cambia. E l’ex direttore del Corriere della Sera non ha usato giri di parole nella sua intervista all’Huffington Post, definendo il clima attuale verso la sua regione “inaccettabile”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le parole dello scrittore Massimo Mantellini, membro della task-force governativa contro l’odio (di per sé, un intellettuale o presunto tale che si presta a un’operazione orwelliana di questo livello, fa già pensare e non poco), rilanciata su Twitter: La dico piano: chiudiamo i lombardi in Lombardia. Almeno quest’estate. In effetti, le cazzate è meglio dirle piano. Oddio, sarebbe meglio non dirle del tutto. Ma si sa, in Italia vige il principio warholiano dei 15 minuti di notorietà per chiunque. E Mantellini ha voluto giocarsi i suoi in questo modo, forse non riuscendo a farli fruttare in modo migliore e meno ridicolo attraverso il suo misconosciuto lavoro letterario.
Poco male, ne abbiamo sentite tante, non saranno queste ultime parole di disprezzo verso una regione e i suoi abitanti che hanno visto sfilare le bare nei camion militari come in guerra ad abbatterci. Però, ripeto, il problema non è il sottoscritto. Il problema sono le parole piene di rabbia di Ferruccio de Bortoli. Le quali racchiudono qualcosa che va oltre l’indignazione: paura. Paura che qualcosa di mai del tutto sopito possa risvegliarsi brutalmente, sotto i colpi degli schiaffoni che la crisi economica sta per assestare all’area più sviluppata, produttiva e ricca del Paese. Paura che il vaso già rotto, se dovesse cadere un altro volta a terra, non sarebbe più recuperabile attraverso il sapiente uso della colla e della pazienza.
A cosa mi riferisco? In primis, essendo io un prosaico cultore dell’economia e votato al gretto pragmatismo, a questo: e se dalla Lombardia, oltre ai lombardi, non uscissero nemmeno più le tasse? O, meglio, se uscissero solo per un 20% del totale che finirà a Roma a fondo perduto come contributo di solidarietà, salvo mantenere in loco l’80% del gettito? D’altronde, se vale il principio della limitazione nella circolazione delle persone, deve valere anche per le merci. E le tasse.
Pensate che, a quel punto, alla Lombardia interesserebbe qualcosa dei mille decreti del Governo, delle conferenze stampa o delle mancette/bonus elargite da Roma, mettendo a bilancio ex ante i soldi contrattati in Europa? Di converso, pensate che Roma e tutte le regioni che oggi stanno berciando in nome di una schadenfreude vergognosa contro la Lombardia, accetterebbero questo nuovo regime di residuo fiscale? La questione è più seria di quanto appaia, cari lettori. Lo testimonia la presa di posizione di Ferruccio de Bortoli, totalmente scevra da mediazione di sorta. Perché qui esiste un enorme problema di fraintendimento di fondo.
Se infatti i cittadini di alcune regioni basano il loro sentimento discriminatorio verso i lombardi per reale timore sanitario di contagio, nella sfera politico-economica e supposta culturale è in atto un attacco senza precedenti contro la giunta lombarda e contro il principio stesso di autonomia, sancito appunto dal referendum di Lombardia e Veneto. Sia chiaro, se la mia regione è finita nel mirino più di quella amministrata da Luca Zaia è perché certamente ha compiuto errori maggiori nella gestione dell’emergenza, inutile negarlo. E di quegli errori si dovrà dare conto e capire le motivazioni, una volta che la situazione sarà tornata definitivamente alla normalità. Resta però il fatto che colpire la Lombardia significa colpire – nel pressappochismo politico da legge del beduino mal declinata del potere centrale – Matteo Salvini e la sua Lega, insinuando un cuneo fra la sua leadership e quella più “illuminata” e applaudita anche a sinistra di Luca Zaia.
Strumentalità politica al livello dei primati, insomma. Il tutto senza provare un minimo di rispetto per 35mila vittime, moltissime delle quali proprio lombarde, per medici e infermieri, per parenti che non hanno potuto dire nemmeno addio ai congiunti. E per centinaia di attività che, forse, non vedranno più la luce della saracinesca che si rialza.
Perché? Perché lo stesso Stato che si permette di processare la Lombardia e la sua sanità a emergenza ancora latente, non perde tempo nel richiedere tasse e balzelli a gente che da tre mesi non vede introiti. Il tutto, dopo avergli promesso soldi che nella maggior parte dei casi non sono mai arrivati e imponendogli misure di sicurezza per la riapertura degne della Nasa. Ecco perché Ferruccio de Bortoli è spaventato: perché lui la stagione della Lega secessionista l’ha vissuta da direttore del principale quotidiano italiano e del simbolo stesso della Milano dell’informazione. E sa, in cuor suo, che al netto delle pagliacciate padane, fra ampolle e Soli delle Alpi, il malcontento era arrivato a livelli di guardia. E la possibilità che, senza Bossi, la situazione sfuggisse decisamente di mano era molto alta.
Ferruccio de Bortoli lo sa e con la sua intervista ha invitato tutti a non giocare con il fiammifero della propaganda vicino alla benzina del malcontento lombardo. Soprattutto in un momento come quello attuale. Perché il pericolo alle porte, latente, non è quello di una mera questione di ordine pubblico e tenuta dell’assetto istituzionale dello Stato. No, qui si rischia di precipitare nel vuoto di rappresentanza. Ovvero, l’anticamera del caos, soprattutto in una regione come la Lombardia che ha sempre rispettato le istituzioni e le leggi, di qualunque colore fosse il delegato di turno chiamato a vigilare. Adesso, tutto è frammentato, confuso, anarchico nel senso deteriore del termine. E tutto è in movimento, in base però a un principio di navigazione a vista.
Guardate questi tre grafici, il primo dei quali ci mostra il dato sulla produzione industriale tedesca di aprile reso noto ieri e comparato con l’andamento del Pil. La lettura è di quelle drammatiche: -17,9%, attribuibile soprattutto al lockdown pressoché totale del comparto automobilistico.
Un dato simile porta con sé l’ipotesi di un calo del Pil reale nel secondo trimestre a doppia cifra. Certo, Berlino ha messo in campo il suo piano da 130 miliardi per reagire al fall-out economico della pandemia, ma il secondo grafico pone in evidenza una seconda criticità immediata, una sfida anche a quella scommessa espansiva e una sua implicita spiegazione rispetto ai controvalore record messo in campo: il fiume Reno è oggi al livello più basso degli ultimi 20 anni. E l’estate non è ufficialmente nemmeno iniziata. Quel corso d’acqua è infatti di fondamentale importanza per l’industria chimica tedesca, a sua volta seconda per importanza strutturale solo all’automotive. Insomma, la strada della ripartenza appare decisamente in salita. Infine, il terzo grafico amplia l’orizzonte di discussione all’ambito europeo, quasi alla vigilia del Vertice del 18 giugno sul Recovery fund che già sta spaccando la Cdu-Csu della Cancelliera. Compara infatti la crescita della massa monetaria M3 stimolata dall’operatività della Bce con le aspettative inflazionistiche: di fatto, il ritorno del fantasma di Weimar. E non lo dice il sottoscritto, lo ha scritto nero su bianco sul Daily Telegraph un osservatore attento delle dinamiche macro come Ambrose Evans-Pritchard in un articolo dal titolo poco incline alle interpretazioni: La Germania teme che la Bce stia seguendo la Reichsbank di Weimar nella trappola inflazionistica. All’interno del pezzo, poi, si trova tutto ciò che i valenti corrispondenti della stampa italiana da Berlino tendono a ignorare nelle loro cronache, stante la narrativa in auge della Germania diventata amica del Club Med, poiché pentitasi del passato di austerity. Sono tanti, davvero troppi e acuminati i pareri contrari all’operato di Christine Lagarde. Sintomo che la scadenza del 5 agosto – con l’ultimatum fissato dalla Corte di Karlsruhe all’Eurotower per ottenere risposta ai suoi rilievi di liceità del Qe – può continuare a far parte della categoria dell’ignorabile solo a nostro rischio e pericolo.
Berlino può far saltare il banco, quello che da giovedì scorso vede il nostro spread festeggiare i 600 miliardi di ammontare in più stanziati per il Pepp. E potrebbe essere tentata di farlo, se la situazione macro continuasse a peggiorare o migliorasse più lentamente di quanto preventivato. Ecco, a mio avviso, un’altra motivazione della preoccupazione crescente in molti intellettuali come Ferruccio de Bortoli che la Lombardia la conoscono profondamente. O dell’attacco frontale lanciato da Carlo Bonomi contro la politica centrale, capace potenzialmente di arrecare più danni all’economia reale di quanti non ne abbia fatti il Covid-19. La risposta sprezzante di Giuseppe Conte al leader di Confindustria, seguita dal rito tutto italico della convocazione di Stati generali dell’economia (il corrispettivo dell’istituzione di una Commissione d’inchiesta dopo una strage, ovvero il modo migliorare per insabbiare tutto) parla chiaro: c’è pressappochismo, c’è incapacità, c’è dilettantismo e c’è una buona dose di rivalsa politica contro Milano per cercare di colpire il cuore dell’opposizione a Roma. Ma c’è anche paura. Perché se in Europa qualcosa dovesse andare storto, l’Italia si ritroverebbe a inseguire la ripresa economica su una base fattiva di due velocità: un Nord piegato dalla pandemia ma in grado di lavorare grazie al rapporto commerciale proprio con il settore automobilistico tedesco, ad esempio, e un Sud che potrebbe godersi le sue spiagge assolate e lombardi-free, salvo non sapere come mettere insieme il pranzo con la cena di lì a due mesi.
Attenzione, perché il caso Iva può essere il campanello d’allarme, il proxy, il canarino nella miniera di una de-industrializzazione terminale del Mezzogiorno. Stiamo ballando allegramente sul ponte del Titanic, signori. E le menti più attente, sono preoccupate. Altre invece, piene di tempo libero dai loro impegni nelle task-force governative, lanciano proposte idiote su Twitter. Ognuno faccia il suo gioco. Ma attenti a tirare troppo la corda.