Scusate, abbiamo scherzato. Come volevasi dimostrare, i colloqui sino-americani tenutisi nel fine settimana a Washington sono stati l’ennesima pantomima atta a prendere tempo. Nulla di fatto, ma si continua a trattare, perché – come ha detto Donald Trump – “per la Cina è meglio trovare un accordo adesso, perché nel mio secondo mandato il prezzo sarà più alto”. Balle. Primo, non ci sarà nessun secondo mandato. E il primo a saperlo è il Presidente. Secondo, per ora le tariffe in aumento sono annunciate, ma, anche se scatteranno, pensate che non basterà mezzo progresso nelle trattative – vero o presunto, millantato o inventato di sana pianta, come fatto finora ogni volta che le Borse scendevano troppo o salivano pericolosamente – per congelarle e lasciare tutto com’è da mesi ormai? Terzo, attenzione a pensare che non ci sia una regia precisa. Lo ha confermato, di fatto, il consigliere economico della Casa Bianca, quel Larry Kudlow che passa metà del suo tempo a twittare contro la Fed e chiedere il taglio dei tassi (in ossequio all’economia Usa che scoppia di salute). “Il fatto che i colloqui si siano interrotti non significa che il dialogo lo sia altrettanto. Il presidente Trump e Xi Jinping potrebbero incontrarsi già al G20 in Giappone”.



Di fatto, fra breve, visto che il meeting dei potenti del mondo si terrà a Osaka il 28 e 29 giugno prossimi. Timing perfetto, prima dell’estate. E con un mese di potenziali turbolenze di mercato di fronte a noi. Ma, soprattutto, immediatamente dopo il voto europeo, quando presumibilmente a Bruxelles regnerà un mezzo caos. Particolare tutt’altro che trascurabile, essendo l’economia dell’eurozona la principale “vittima” del disastro macro innescato da Cina e Usa in un contesto di indebitamento strutturale e bolla finanziaria già di per sé ormai fuori controllo. Sapete qual è la realtà in cui va a incastrarsi la pantomima sino-americana? Vi faccio tre esempi molto rapidi.



Prendiamo uno dei proxy assoluti dell’economia del Dragone, ovvero il mercato auto. Ad aprile e dopo 11 cali consecutivi, il dato ha parlato su base annua di un -16,6% a quota 1,54 milioni di veicoli, questo dopo il -12% di marzo e il -18,5% di febbraio. Inoltre, scorporando il dato, le vendite di Suv in aprile si sono letteralmente schiantate a -14,7%. Non a caso, Pechino starebbe studiando un mega-piano di incentivo per l’acquisto di auto elettriche, in modo da uscire da questo circolo vizioso che va a impattare su uno dei settori più strategici dell’industria globale. Europea in testa, guarda caso. Ma non basta. Perché al netto della narrativa macro ufficiale, dal Pil del primo trimestre alla disoccupazione ai minimi dal 1969, questi grafici ci mostrano come l’aumento tariffario deciso da Trump e che ha portato con sé lo showdown appena conclusosi a Washington, sia giunto con un tempismo perfetto, quantomeno guardando le dinamiche di due voci fondamentali per la crescita economica statunitense, l’indice manifatturiero e l’outlook relativo alle condizioni generali di business.



Il che porta a una domanda, forse dietrologica, forse falsamente retorica: la reale motivazione dell’ennesima escalation a cui abbiamo appena assistito è davvero dovuta a una dinamica di riequilibrio della bilancia commerciale che non poteva più essere procrastinata oltre? O, forse, entrambi i contraenti hanno un’agenda nascosta, la cui finalità comune pare comunque quella di creare una cortina mediatica di emergenzialità tale da richiedere un sostegno statale per economie che, altrimenti, godrebbero di forma smagliante, almeno stando allo storytelling? Negli Usa, durante il fine settimana appena trascorso, si stava cercando un accordo o un alibi?

Non fatevi prendere in giro, perché stavolta in palio c’è molto più che una disputa di interessi transitori. Non a caso, come avrete sentito al tg, con emergenzialità mediatica degna del miglior Russiagate, in vista del voto di fine mese Facebook ha oscurato una ventina di pagina di fake news, la gran parte delle quali facenti riferimento all’elettorato di Lega e M5S. Sacrosanto, per carità. Gli avvelenatori di pozzi sono l’ultima categoria di cui abbiamo bisogno, in questo momento. Vi invito però a riflettere su un dato, partendo da questa notizia, rilanciata dal sito dell’agenzia Ansa e dai suoi link sui social network. Ora, che il partito di Farage sia in testa ai sondaggi è vero e noto, resta da chiedersi quanto ci sia di reale nel fatto che alberghi il panico al riguardo a Londra e Bruxelles. Fattispecie che, invece, l’Ansa ci tiene a far sapere, tanto da spararla nel titolo di un articoletto insulso di dieci righe. Scusate, ma il 30 ottobre la Gran Bretagna non uscirà dall’Ue, di fatto ritirando i suoi 70 e rotti eurodeputati, il cui ruolo comunque decadrà quindi in automatico? E allora, perché dovrebbe esserci il panico a Bruxelles e Londra? Costi del trasloco? Patema d’animo da ripartizione dei seggi fra chi resta?

Tanto più che, stando all’ultimo sondaggio YouGov, se è vero che a livello europeo il partito del Brexit fondato a tempo di record (viene quasi il dubbio che l’operazione fosse già pronta, da tempo) dal grande millantatore per conto terzi ha più voti di Tories e Labour messi assieme, a livello nazionale è terzo e una sola incollatura dai LibDem, se si votasse per un nuovo governo e un nuovo Parlamento sulle rive del Tamigi. Quindi, delle due, l’una. O all’Ansa hanno voglia di aggiungere una “i” al loro nome, propagandando quindi ansia fra i lettori oppure sanno qualcosa che noi non sappiamo. Ovvero, che il Brexit in realtà non ci sarà mai, altro che 30 ottobre e gli eurodeputati britannici che verranno eletti conteranno davvero nella loro connotazione politica di riferimento, perché resteranno in carica tutta la legislatura. Operativi. È semplice, lineare. Così come ciò che vi dico da sempre: la partecipazione al voto – il quale in Gran Bretagna si terrà il 23 maggio – rappresenta per il Regno Unito la pietra tombale su ogni ipotesi di uscita dall’Ue, quantomeno senza ricorrere a forme di patetico partenariato che presupponga, ad esempio, il mantenimento dell’unione doganale sine die.

Signori, i nodi stanno venendo al pettine. Per tutti. Per le balle statunitensi sull’economia che scoppia di salute, per la reale natura della crescita cinese – non da oggi, ma da almeno un ventennio -, per la tenuta di un’Europa che, da qualsiasi latitudine la sia guardi, fa acqua da tutte le parti. Quindi, ecco che parte la grande pantomima dei troll russi, degli hackers nordcoreani, degli haters trumpian-salviniani e chi più ne ha, più ne metta. D’altronde, questa campagna elettorale per le europee è stata studiata a tavolino, per bene. Quando è andato definitivamente a morire come il proverbiale cigno, il movimento dei “gilet gialli”? A sei mesi esatti dal suo esordio nelle piazze e nelle strade di Francia, al 26mo, patetico atto tenutosi sabato scorso e non degno nemmeno di una notizia in breve e senza immagini nei telegiornali. Puff, smosciato come un soufflé. E con tempismo elettorale a dir poco straordinario, proprio a ridosso delle ultime due settimane di campagna elettorale, quando si entra nel vivo. Quando il gioco si fa duro e conta davvero. Quando, soprattutto, la lotta si concentra nell’intercettazione degli indecisi e dei potenziali astenuti, ovvero le armi atomiche per poter vincere.

Alla faccia di Emmanuel Macron politicamente morto e della protesta destinata a durare e cambiare per sempre la Francia: sono talmente rivoluzionari che sono bastati due provvedimenti e un innalzamento delle pensioni minime, il tutto finanziato a deficit, per far rientrare nei ranghi i Sanculotti 2.0! Signori, in Francia di rivoluzione se ne intendono, non si fanno infinocchiare da quattro sfaticati, due casseurs e un sindacalista in cerca d’autore (e stipendio d’oro a Bruxelles). Sarà, per chi come me ormai non crede più alla democrazia rappresentativa, uno spettacolo davvero divertente e illuminante quello che andrà in scena nell’ultimo weekend di maggio. In tutta Europa, senza esclusione di latitudine.

La Grecia, poi, ci regalerà delle gioie, statene certi (credete che i mea culpa di Juncker e Fubini sui danni criminali della Troika non abbiano un doppio fine, ognuno a modo suo?). Certo, qui i toni sono più ridicolmente millenaristici, ma, si sa, siamo la patria della sceneggiata napoletana, ci piacciono le rappresentazioni caricate di parossismo. Il ministro Matteo Salvini, in tal senso, parla del voto del 26 maggio come di un referendum sull’attività di governo, quasi cominciasse a sentire il fiato che si accorcia e si fa più flebile, dopo la cavalcata di consensi degli ultimi mesi. E la mossa di tagliare tre puntate alla trasmissione di Fabio Fazio tradisce una disperazione che ha l’odore acre e inconfondibile della paura (ricordate la previsione della pressoché unica testa pensante leghista, quel sottosegretario Giancarlo Giorgetti che regalò a tutti una fotografia di Matteo Renzi, come monito riguardo la caducità del consenso?). Staremo a vedere, ma temo che certe coincidenze che si stanno susseguendo, una dopo l’altra, attorno alla Lega, tali non siano. E sono certo che il ministro Salvini faccia bene ad avere politicamente timore.

Vi pare un caso che nel giorno in cui proprio Matteo Renzi attaccava frontalmente il leader leghista in un’intervista su Repubblica (fino a pochi mesi fa, la kriptonite fatta giornale per l’ex segretario Pd), dicendo chiaro e tondo che parte dei 49 milioni di finanziamento pubblico per cui il (fu) Carroccio è stato condannato, sia stata utilizzata per finanziare la disinformazione social, Facebook – casualmente e con enorme clamore rispetto al reale profilo dei soggetti in questione – chiuda 23 profili di fake news vicini a Lega e M5S? Pensateci. Fa riflettere. Come fa riflettere il fatto che sempre il ministro dell’Interno si sia premurato di comunicare in tv che non querelerà Matteo Renzi per le sue dichiarazioni. Magari sono tutte coincidenze, chissà.

A proposito: andrete a votare, voi? Se sì, bravi, fate bene. Avete il mio plauso, perché dimostrate senso civico, di responsabilità e una fiducia nell’istituto del voto popolare che io non ho più. Almeno da un paio d’anni buoni. Attenti a cosa ci diranno i mercati, da qui al 26 maggio. E non parlo dei tonfi delle Borse o magari di qualche rendimento obbligazionario che fa le bizze, quelli sono roba da gonzi, da parco buoi. E, soprattutto, da interessate baruffe chiozzotte fra Usa e Cina. Attenti ai segnali da poco, quelli che quasi ci lasciano indifferenti. Tipo, com’è emerso proprio ieri e senza preavviso, il caso EssilorLuxottica, la pace scoppiata di colpo fra Leonardo Del Vecchio e i francesi, Laurent Vacherot in testa, sulle controversie legate alla governance. Tutte le dispute in corso sono revocate, in primis l’arbitrato mosso proprio dalla Delfin di Del Vecchio in sede di Camera di Commercio Internazionale riguardo l’accordo di integrazione post-fusione. Due colossi, ma, soprattutto, due simboli. E due Paesi. Oltre che due paradigmi di questa Europa sotto presunto attacco barbarico-sovranista, in cerca di pacificazione sociale e responsabilità civile. A due settimane dal voto per le europee. E solo due settimane dopo la più che cordiale visita del presidente Sergio Mattarella all’Eliseo, formalmente per il 500mo anniversario della morte di Leonardo da Vinci.

Sono sempre più convinto che votare non serva un granché, perché grazie al cielo ci sono poteri senza delega che mettono ordine al caos creato dagli uomini.