Antonio Tajani stia tranquillo. Non si rischia la recessione, ne abbiamo fin da ora la certezza. E non per pessimismo. Semplicemente perché fa parte del gioco. Il medesimo gioco che, per almeno tre anni in ossequio al contrasto della pandemia, ha visto la medesima Bce – che ora si critica – assorbire la totalità delle nostre emissioni di debito. Ogni tanto, però, serve la purga. Se, poi, la Capigruppo avrà confermato l’approdo in Aula venerdì della mozione di minoranza sul Mes, salvo rimandarne la discussione a settembre, anche la mossa della nomina di Fabio Panetta a Bankitalia svelerà la sua impalcatura di arrocco difensivo. Un po’ troppo svelato, sintomo di una tensione sempre più crescente. E mai come in questo caso, vale il motto francese: tout se tient.



Il grafico parla chiaro: la Bce ha innescato un processo di rialzo in un contesto di fatto pre-recessivo. Ovvero, ha agito esattamente al contrario di come fatto in passato. E di come la teoria avrebbe richiesto.

C’è un problema, però. La teoria non prevede un regime di Qe strutturale che inondi di liquidità il sistema senza soluzione di continuità, di fatto monetizzando debito e finanziando direttamente deficit attraverso il suo backstop. Tradotto, Antonio Tajani dovrebbe prendere atto dell’intero processo in atto e non solo del suo sgradito epilogo di un nuovo rialzo dei tassi a luglio. Se fino alla pandemia gli eccessi monetari venivano riciclati e sterilizzati nei rallies azionari, dal Qe pandemico in poi la messe di denaro creato dal nulla è divenuta esorbitante per quel circolo vizioso. E ha esondato nell’economia reale, esacerbata nel suo flusso alluvionale dal booster della crisi energetica scatenata dall’affaire ucraina. Insomma, inflazione. La quale non significa aumento dei prezzi, ma aumento della massa monetaria circolante, di fatto il driver dell’aumento dei prezzi. Tocca quindi mettere mano alla coerenza e accettare che uno spread narcotizzato dal prestatore di ultima istanza necessita anche di cortocircuiti sui tassi come quello mostrato nel grafico: se si vive giocoforza in regime di deroga al buon senso, la creanza impone di accettare senza strepiti anche i lati negativi.



Attenzione, poi, al cattivo pensiero: perché se fino allo scorso anno la teoria dell’inflazione energetica che “dopava” anche il carrello della spesa poteva avere un suo appiglio bellicista, oggi il rischio è quello di scontare un’inflazione da profitto. La quale – non a caso – per essere combattuta a colpi di rialzi dei tassi, necessita più tempo del previsto e del teoricamente necessario per essere ricondotta entro gli argini. L’alternativa? Operare di concerto con la Bce. Ovvero, mentre Francoforte alza il costo del denaro, i Governi con provvedimenti ad hoc fanno in modo che l’odiosa tassa occulta dei prezzi non colpisca soltanto i più fragili.



Forse si teme che la Bce imponga implicitamente un qualche tipo di patrimoniale al Governo, stante una recessione alle viste delle brume autunnali che renderà pericolosamente palese l’insufficienza della leva dei tassi nel contrasto alle diseguaglianze? E sullo sfondo di questo scenario, qualche iceberg già si muove. Rapidamente. Sotto forma dell’ennesimo profit warning in Germania. Questa volta, però, protagonista e conseguenze sono stati decisamente degni di nota.

Venerdì scorso il titolo di Siemens Energy è crollato del 37%, il maggior calo intraday della sua storia, come mostra il grafico. La ragione? Un profit warning, appunto. Seguito da un drastico taglio della guidance sugli utili, stante un sostanziale aumento dei guasti nelle componenti delle turbine eoliche che sta azzoppando la controllata Gamesa. Ops, la rivoluzione green presenta un altro conto alla Germania che ha spedito i Grunen ai Governo, dopo quello devastante per l’industria dell’auto della dittatura elettrica?

E i cali sono proseguiti anche nei primi giorni di questa settimana, chiaramente su percentuali più contenute. Guarda caso, nel frattempo il golpe-farsa in Russia ha messo le ali ai futures del gas ad Amsterdam, lunedì in mattinata in aumento dell’11% e ormai stabilmente sopra i 50 euro MWh per l’intero terzo trimestre 2023. Ovvero, l’autunno.

Ma si sa, qui è tutto a posto. Abbiamo l’Algeria, la quale ovviamente manderà a quel Paese il suo rapporto simbiotico con Gazprom per fare felici aziende e famiglie italiane. In Germania, invece, qualche timore concreto per una seconda ondata di inflazione energetica c’è da tempo. E prima che la Russia si candidasse a elemento di destabilizzazione del comparto, ecco che la controllata statale Sefe ha siglato un accordo con la statunitense Venture Global Lng per una fornitura 2,25 milioni di tonnellate l’anno di gas liquefatto. Missione compiuta, la Nato ha strappato alla Russia la principale economia europea, trasformandola in apprezzato cliente per i giganti Lng d’Oltreoceano. Ma non basta, perché in nome della cautela che non è mai troppa, alla fine dello scorso anno sempre la Germania aveva firmato un accordo di fornitura per almeno 15 anni a partire dal 2026 con QatarEnergy. Casualmente, negli stessi giorni ConocoPhillips siglava a sua volta un accordo di fornitura legato ai progetti di espansione degli strategici North Field East (Nfe) e North Field South (Nfs) del Qatar. In Italia, l’unico contatto con Doha era invece garantito dalla visione disinteressata dei Mondiali di calcio e da un’inchiesta in modalità cortina fumogena che, ovviamente, stampa e politica hanno battezzato come esiziale per la democrazia.

Il Governo tedesco ha le idee chiare: entro il 2030, la capacità di importazione Lng salirà fino a 70,7 milioni di tonnellate all’anno. Ora, al netto dell’allarmismo di cui mi si accusa in automatico, davvero c’è da stare tranquilli di fronte all’inazione del nostro Esecutivo sul tema? E il silenzio di Confindustria, cosa ci dice? In compenso, le bollette restano alte. Quasi le più alte d’Europa. Con i futures del Dutch a 36 euro per MWh. Da settembre, cosa attenderci?

E attenzione, perché paradossalmente esiste un rischio strutturale e sistemico più grande: se la mossa di Siemens Energy di ammettere le difficoltà en plein air, preferendo pagarne subito il prezzo, fosse il prodromo di un de-greening di massa del corporate prima tedesco e poi europeo? Sbaglierò, ma gli ingredienti per la tempesta perfetta ci sono tutti. Almeno sulla carta. E salvo conigli dal cilindro.

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