Davvero il prezzo del gas sta calando grazie all’approdo sul tavolo del Consiglio Ue dell’ultimo, geniale compromesso al ribasso partorito da Ursula von der Leyen? No, meglio essere chiari da subito. Perché il price cap temporaneo e dinamico ricorda molto l’inflazione simmetrica lanciata da Christine Lagarde nel board emergenziale del luglio 2021. In quest’ultimo caso, la ratio era quella di ritenere non soddisfacente alcuno scostamento al rialzo ma anche o al ribasso delle dinamiche dei prezzi dal target obiettivo del 2%.



Risultato? Siamo al 9,9%, dato di settembre 2022, l’ultimo disponibile e appena diffuso. Un capolavoro. Inutile prendersi in giro: l’Europa sta lucidando il parquet di una casa che sta andando a fuoco. Gli acquisti comuni e il mutuo soccorso fra Stati in fase di necessità energetica è il nulla, se paragonato all’ambizione iniziale di un price cap draconiano che spezzasse le reni a Gazprom e a un Recovery Fund energetico basato su emissioni comuni sulla falsariga dello Sure anti-pandemico. E signori, se cercate un perché all’oltranzismo della Germania su questo ultimo punto e sull’introduzione di un price cap tout court, sappiate che la neo-nazionalizzata Uniper potrebbe avere bisogno di altri 40 miliardi di aumento di capitale per tamponare nuove perdite, come riportato proprio ieri mattina con grande evidenza da Handelsblatt. Con che spirito pensate che si sia seduto al tavolo, Olaf Scholz?



Perché allora scende il prezzo del gas ad Amsterdam? Per un insieme di fattori, tutti tenuti insieme da una prezzatura speculativa che vede più probabile una prospettiva da short che emergenziale al rialzo. C’è il fattore meteo, il quale vede gran parte dell’Europa beneficiata finora da temperature quasi estive, quindi in grado di rinviare in avanti le esigenze legate almeno al riscaldamento. C’è poi il silenzioso ma sempre più spinto processo di normalizzazione verso la Russia, lo stesso di cui vi parlavo nel mio articolo di ieri. C’è infine questo, il quale però si pone come proverbiale arma a doppio taglio.



I punti gialli che vedete al largo della penisola iberica sono tanker di LNG, gas liquefatto, in attesa di essere scaricati negli hub di rigassificazione spagnoli. Attualmente sono ben 35. Ma c’è un problema: nella settimana che sta per concludersi, la Spagna ha proceduto alle operazioni di scarico solo per 6 di questi charter marittimi. Mancanza strutturale di capacity relativa alle importazioni di gas liquefatto: non a caso, la Germania – oltre ad aver prolungato la vita delle tre centrali nucleari fino alla prossima primavera – ha accelerato le operazioni per la costruzione di due facilities galleggianti. Ma quei 25 tankers in coda e in attesa parlano chiaramente la lingua di una capacità di rigassificazione totalmente insufficiente rispetto alla draconiana rapidità della transizione in seno agli approvvigionamenti che si è voluta imporre attraverso le sanzioni e la rottura dei rapporti con Gazprom. Insomma, il rischio è quello generato con l’accelerazione della transizione verde in relazione alle dinamiche dell’industria automobilistica. Perché il gas russo arrivava pronto all’uso via pipeline, qui deve attraversare l’oceano via charter e poi essere rigassificato in loco.

A oggi, al largo della penisola iberica si trova un tesoretto galleggiante di 2,5 milioni di tonnellate di LNG. Quale il problema? Semplice. Il medesimo che si viene a creare con il petrolio, ovvero il rischio che chi opera decida di optare per il cosiddetto contango: cioè ritenere più conveniente mantenere quel gas liquefatto fermo al largo, in attesa di un aumento dei prezzi dai minimi e generando in questo modo – quasi in maniera passiva – un ritorno delle valutazioni su livelli record. E cosa potrebbe spingere gli importatori a questa logica speculativa?

Primo, una prezzatura in negativo della decisione del Governo cinese di vietare agli importatori energetici a controllo statale di rivendere a clienti esteri il gas liquefatto acquistato sul mercato, questo per garantire scorte interne al Dragone in vista dei mesi più freddi. Oppure un’esplosione in mano del pacco bomba energetico con cui Joe Biden sta giocando a palla avvelenata, in vista del mid-term. Per tenere basso il prezzo dei carburanti alla pompa dopo la decisione dell’Opec+ di tagliare la produzione di 1 milione di barili, il Presidente Usa ha deciso di drenare altri 15 milioni di barili dalle riserve strategiche, a oggi già al minimo dal 1984 con soli 130 milioni di barili a disposizione per la vendita.

Ed ecco che questo secondo grafico mostra come gli Stati Uniti rischino di spararsi sul piede e innescare una dinamica globale di nuova criticità, poiché – esattamente come l’Europa con la carenza di rigassificatori – anche gli Usa devono fare i conti con un crollo della capacità di raffinazione. E si sa, nel serbatoio dell’auto non puoi mettere il petrolio del barile.

Inoltre, giova ricordare come dall’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, quest’ultima abbia già deciso e deliberato per il drenaggio di qualcosa come 230 milioni di barili dalle riserve strategiche. Risultato? Nonostante questo, il prezzo medio alla pompa è comunque aumentato di 1,66 dollari al gallone, come mostra il grafico.

Insomma, l’azzardo elettorale appena deciso da Joe Biden rischia di portare ulteriormente al ribasso il livello attuale delle riserve Usa, spinte già al minimo di soli 22 giorni rimanenti di fornitura garantita. Cosa significa? Semplice. Il combinato potenziale di taglio della produzione Opec e della Russia unito a un possibile e probabile aumento della domanda cinese – le cui importazioni nel mese di settembre sono già salite di 2 milioni di barili al giorno, proprio nella prospettiva di rifornimento verso un’Europa in modalità francese di carenza di carburanti – spingerà al rialzo il prezzo del petrolio, visto da alcuni analisti come Neil Beveridge della Sanford C. Bernstein oltre i 120 dollari al barile entro la fine del 2023. Il tutto con le dinamiche macro globali tutte da decifrare, poiché se la recessione dovesse dimostrarsi più profonda e prolungata del previsto, le Banche centrali potrebbero bloccare il ciclo di rialzo dei tassi ed entrare addirittura in modalità reverse. Ovvero, taglio e nuovo Qe, accelerando la ripresa e quindi la richiesta di energia.

Detto fatto, in questo quadro prospettico gli Usa si troverebbero costretti a rimpinguare le esangui riserve strategiche, mettendo il turbo alle dinamiche rialziste da extra-domanda. E con i piani dell’Amministrazione Biden che vedrebbero Washington pronta a cominciare queste operazioni di acquisto per stoccaggio con il barile nel range 67-72 dollari, ecco che gli ingredienti per una tempesta energetica perfetta sembrano pronti a mixarsi come nello shaker di un barman professionista.

Insomma, attenzione e ritenere le attuali dinamiche dei prezzi spot di Amsterdam come il segnale di una vittoria sull’emergenza energetica accelerata drammaticamente dalla guerra. La weaponization dell’energia, ovvero la trasformazione delle fonti fossili in armi della guerra geopolitica prima che economica, appare solo all’inizio. E nel breve termine potrebbe rendere molto conveniente mantenere fermi quei 35 tankers in attesa al largo della Spagna. E a quel punto, ad Amsterdam cambierà la direzione del vento. E la musica.

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