C’era da aspettarselo, la situazione a Hong Kong era troppo seria per non essere affrontata in maniera drastica da parte delle autorità cinesi. Tre leader della protesta sono stati arrestati e poi rilasciati si cauzione, uno dei quali mentre era in aeroporto in attesa di imbarcarsi per Tokyo. E immediatamente il corteo pro-democrazia atteso per oggi e particolarmente sentito fra i manifestanti è stato cancellato. Nulla esclude però che proteste e cortei spontanei e non organizzati possano avere pericolosamente luogo. Cosa stava accadendo, sottotraccia, nell’ex colonia britannica? Nulla di nuovo, Pechino stava cercando l’incidente controllato per imporre la legge marziale.



Lo ha scritto, chiaro e tondo, il South China Morning Post il 27 agosto scorso: la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, faceva infatti trapelare di non escludere il ricorso alla famigerata Emergency Regulations Ordinance per contrastare la protesta di piazza e i suoi profili sempre più violenti e al limite dell’eversione del potere costituito. Tradotto: in caso di violenze al preannunciato corteo che avrebbe dovuto tenersi oggi (magari debitamente fomentate da provocatori e infiltrati, in perfetto stile “gilet gialli”) si sarebbe passati alle maniera legislative forti. Perché quel provvedimento di sicurezza equivale, nei fatti, proprio alla legge marziale. Non a caso, giovedì migliaia di soldati cinesi sono entrati a Hong Kong da Shenzhen: ufficialmente si trattava di una rotazione con quelli già presenti, del tutto routinaria e già programmata. Ma, al netto degli ingressi, non si erano visti militari abbandonare l’ex colonia in numero cospicuo.



Ieri, poi, il colpo di teatro: l’arresto dei tre leader. Uno dei quali, Joshua Wong, vi è noto perché ho parlato di lui nel mio articolo del 21 agosto: era infatti lui l’uomo ritratto all’Hotel Marriott, mentre parlava con la responsabile politica del Consolato Usa a Hong Kong, Julie Eadeh, diplomatica con una lunga carriera di “missioni speciali” in luoghi caldi del mondo, fra cui Beirut, Baghdad e Gerusalemme, come mostra la foto.

Insomma, a detta dei cinesi, la prova provata dell’intromissione del Dipartimento di Stato Usa nella protesta di Hong Kong, la lettera scarlatta dell’eterodirezione statunitense della pericolosa opera di destabilizzazione di quello che è l’hub finanziario della Cina continentale, la sua porta ufficiale verso i mercati. E in tempo di guerra commerciale e svalutazioni monetarie, colpire Hong Kong può fare male ai cinesi. Molto male. Non a caso, si è scelto la strada più breve e la più collaudata: colpire la testa del serpente, arrestando i leader e lanciando un duplice segnale molto chiaro. Al resto del movimento di contestazione, al fine di spaccarlo proprio come accaduto con i “gilet gialli” e magari spingerne la parte più dialogante ad accettare l’invito della Lam all’apertura di un tavolo di confronto. Messaggio che pare giunto a destinazione, vista la cancellazione del corteo di oggi. Ma anche un bel avvertimento agli Usa, avendo arrestato l’uomo che la stampa cinese più filo-governativa aveva indicato con tanto di foto rubata all’interno dell’hotel di lusso come referente delle autorità statunitensi sull’Isola. Di fatto, un traditore. E come tale, state certi, rischierà di essere giudicato, se non accetterà di ammettere le proprie colpe a livello quantomeno di collaborazione con una potenza estera.



Paradossalmente, quanto accaduto ha evitato un potenziale bagno di sangue in piazza, anche in ossequio alla ricerca del caos per imporre la legge marziale, ma alza notevolmente l’asticella dello scontro diplomatico, portando il tutto su un piano di guerra asimettrica, di conflitto di spie e provocazioni geopolitiche. La classica escalation che si sa dove comincia, ma, purtroppo, non dove può andare a finire. E a Pechino lo sanno, soprattutto alla luce di un possibile quanto inaccettabile effetto domino. Mentre Hong Kong bruciava per le proteste, un altro territorio “inquieto” come Taiwan concludeva un accordo con gli Usa per l’acquisto di 66 caccia F-16, addirittura facendo scomodare il Congresso statunitense nel pieno della pausa estiva. Ma soprattutto, il timore sta tutto sul lungo termine e sul fronte interno.

Questo grafico sintetizza la preoccupazione maggiore dei dignitari del Dragone: il prezzo della carne di maiale, l’alimento più amato e diffuso della cucina cinese (anche e soprattutto per le fasce meno abbienti della popolazione) è letteralmente volato alle stelle a causa dell’acuirsi della crisi di febbre suina che sta falcidiando gli allevamenti del Paese. Stando a dati ufficiali del ministero del Commercio cinese, nelle due settimane terminate il 9 agosto scorso, i prezzi sono saliti del 18%, portando l’aumento da inizio anno a oltre il 50%.

Stando a rilevazioni del 23 agosto, oggi un chilo di carne di maiale costa 31,77 yuan, circa 2 dollari per libbra. Un prezzo insostenibile sul medio termine dal già scarso potere d’acquisto cinese, oltretutto ulteriormente colpito dalla continua e strutturale svalutazione dello yuan per cercare di controbilanciare l’effetto delle tariffe Usa sull’export. Un circolo vizioso che potrebbe finire malissimo, perché con due focolai come Hong Kong e Taiwan alle porte, l’ultima cosa che può permettersi Pechino è il rischio di una protesta interna per il caro-vita. Non a caso, se a livello ufficioso l’inflazione in Cina viene misurata proprio attraverso il prezzo della carne di maiale, la cosiddetta pork-flation, una ragione ci sarà.

Pechino sa che, al netto degli stop-and-go sulle nuove tariffe che servono unicamente come leverage e supporto per i mercati azionari, a Washington cominciano davvero a intravedere l’occasione storica per un ridimensionamento delle ambizioni globali della Cina, processo che passerebbe anche attraverso il riavvicinamento della Russia all’Occidente già in atto (vedi la scelta di Donald Trump di sottoporre all’ultimo G-7 di Biarritz proprio il tema del ritorno al tavolo di Mosca). Occorre intervenire in maniera preventiva, drastica ma non cruenta, perché qualsiasi atto che venisse percepito come prodromico a una nuova Tienanmen verrebbe immediatamente sfruttato a livello mediatico e propagandistico dall’Occidente. Soprattutto ora che, entrando nel vivo della campagna per le presidenziali 2020, l’America ha bisogno di un argomento e un nemico esterno su cui basare la narrazione, al fine di non dover discutere pubblicamente della recessione in cui sta precipitando il Paese, dopo mesi di favole sull’economia più sana e performante al mondo.

Si viaggia su equilibri molto fragili, si naviga in acque inesplorate: la stessa decisione di Boris Johnson di sospendere l’attività del Parlamento britannico fino al 14 ottobre, di fatto stroncando sul nascere l’attività legislativa anti-Brexit in vista della deadline del 31 ottobre, appare più un azzardo da ultima spiaggia, una chiara provocazione alla piazza in cerca dell’incidente che un atto di forza di un leader determinato. Ora tutto potrebbe relativamente cristallizzarsi fino alle due scadenze più attese, quelle del 12 e 18 settembre, quando Bce e Fed sveleranno ufficialmente le carte che hanno a disposizione. Poi, in base alle mosse e alla reazioni, prepariamoci a potenziali escalation di conflitti a bassa intensità, tutti proxies della medesima, disperata finalità: fare in modo che il mondo – leggi, i mercati – vengano di nuovo alluvionati di liquidità a costo zero, prima che una siccità da dollari si abbatta sul sistema, facendolo grippare del tutto.

È stata un’estate calda e quasi senza precedenti: preparatevi all’autunno, perché si preannunciano fuochi d’artificio. Speriamo solo simbolici. Buon fine settimana.