Segnatevi la data del 24 febbraio 2023 sul calendario. E non per l’anniversario del primo anno dall’inizio dell’operazione militare speciale in Ucraina. Bensì perché Corriere, Repubblica e Stampa, gli stessi autorevoli quotidiani che hanno annunciato per mesi il default di Evergrande e quello sovrano russo, hanno dovuto prendere atto della realtà: la Cina sta con la Russia. Anche perché, dopo la visita del plenipotenziario del ministero degli Esteri di Pechino a Mosca, negarlo avrebbe rappresentato la trasposizione geopolitica della parentela di Ruby Rubacuori con Hosni Mubarak. Meglio tardi che mai.



Nel frattempo, però, succede altro. Ad esempio, il fatto che l’Iraq garantisca via libera al commercio diretto con la Cina denominato in yuan. Avete letto bene, Iraq. Non Iran. Ovvero, il Paese che tanto ha garantito agli Usa a livello di ridiscussione degli equilibri globali. Ma che ha anche imposto un conto da 1,1 trilioni di dollari ai contribuenti statunitensi, chiamati a finanziare quell’ennesima esportazione di democrazia nata da una provetta piena di Citrosodina.



Brutto colpo. Perché la Banca centrale irachena ha deciso che la carenza di dollari sul mercato interno andava finalmente affrontata come priorità. E stante il regime di denominazione in biglietti verdi di tutte le importazioni di Baghdad dalla Cina, occorreva fare qualcosa. In primis, la Banca centrale sosterrà direttamente i bilanci degli istituti domestici con conti denominati in yuan fra gli attivi. In seconda battuta, invece, l’iniezione avverrà attraverso i conti che la medesima Banca centrale detiene presso Development Bank of Singapore e – udite udite – JP Morgan! Il contribuente statunitense ne sarà deliziato. Se la prima opzione vede direttamente coinvolte le detenzioni di yuan della Banca centrale irachena, la seconda rappresenta di fatto un by-pass, un back-door funding, poiché metterebbe in campo le riserve in dollari detenute presso le due banche internazionali. Le quali, a loro volta, saranno così gentili e premurose da occuparsi del cambio in yuan. Di fatto, allibratori da mercato nero cubano. Ma in via ufficiale.



E tanto per gradire, mentre Baghdad certificava implicitamente la crescita esponenziale del ruolo della valuta cinese nell’area, ecco che il ministero della Finanze di Pechino avvisava le aziende a controllo statale (Soe) di lasciare scadere i contratti di consulenza in atto con le Big Four (Pwc, Ernst & Young, Kpmg e Deloitte & Touche) e bloccare ogni rinnovo, poiché ragioni di sicurezza nazionale rendono maggiormente prudente l’utilizzo di audit interni. Chiaramente, questo non vale per le sussidiarie estere. Dopo Dagong con le sue valutazioni creditizie sovrane, ora è il turno del consulting e del rating cinese alla conquista dell’universo corporate?

Lo yuan, fino all’altro giorno ritenuto carta da parati buona solo per il carry trade, ormai viene utilizzato come benchmark per transazioni su beni di primaria importanza come le commodities. E non solo con l’Iraq, bensì anche con l’India, la Russia e mezza Africa. E l’attivismo del Brasile di Lula nella mediazione sul fronte ucraino pare aprire un fronte cinese anche in Sud America. Proprio sicuri che sia l’Impero del Male quello isolato e in minoranza? Proprio sicuri che sia saggio seguire l’agenda neo-con 2.0 di Jens Stoltenberg, lestissimo nel bocciare aprioristicamente i 12 punti del piano di pace della Cina?

Ma attenzione, perché sono tanti i fronti in fibrillazione diplomatica in queste ore. Dopo la riunione ristretta a 7 di giovedì, dedicata guarda caso alla situazione in Ucraina, ieri a Bangalore si aperto il G20 dei ministri delle Finanze. Al centro dell’agenda, le problematiche di alcuni Paesi in via di sviluppo ma anche la regolamentazione delle criptovalute, la tassazione delle multinazionali e il finanziamento di interventi per contrastare i cambiamenti climatici. Insomma, la solita fuffa destinata a terminare nel documento finale come materia da approfondire alla prossima riunione.

In compenso, la location appare decisamente interessante. E il timing ancora di più. Chissà, infatti, di quale umore sarà stata la padrona di casa, la ministra delle Finanze indiana, Nirmala Sitharaman? Perché in perfetta contemporanea con il simposio, il market cap combinato dell’Adani Group è sceso sotto i 100 miliardi di dollari, come mostra il grafico. Dal 24 gennaio scorso, il conglomerato indiano ha perso qualcosa come 136 miliardi di capitalizzazione. E Adani significa tutto in India, dalle utilities energetiche alle gestioni portuali.

La ragione di quel tracollo? Nota a tutti. Il report degli short sellers statunitensi di Hindenburg Research, dal quale si evincerebbe come una delle specialità della casa fosse quella del cooking the books. Valori alterati, sovra-valutazioni delle equities, rating compiacenti, accountability insufficiente e contabilità creativa. Conferme? Solo quelle implicitamente offerte dal mercato attraverso quel bagno di sangue di capitalizzazione. Come mai un’allegra brigata di scommettitori al ribasso, finora nota per aver affibbiato valutazioni a quattro penny stocks dell’Ohio, di colpo decide di mettere da parte la fionda e imbracciare il fucile da caccia grossa, sparando all’elefante? Oltretutto, varcando e non di poco i confini nazionali. E colpendo il bersaglio. Forse questo palese esempio di financial warfare era un garbato messaggio ai Brics, un attacco geo-finanziario in piena regola?

D’altronde, la Cina non si può colpire direttamente. La Russia è già sotto sanzioni di ogni genere. E il Brasile ha appena salutato il ritorno di Lula, quindi prima di subire certe attenzioni gode ancora di un grace period. Tanto per far scordare Jair Bolsonaro e i troppi amici a stelle e strisce. L’India è perfetta. Enorme e potente. Ma fragile. E, soprattutto, seduta su un rapporto incestuoso di leverage tra banche, economia e finanze pubbliche. Sarà per questo che l’Ue, dopo aver steso i tappeti rossi ai suoi dirigenti non più tardi di due settimane fa, sempre giovedì ha intimato a tutti i suoi dipendenti e collaboratori di disinstallare TikTok per ragioni di sicurezza? La Cina non ha gradito. E siamo a due Brics colpiti. Ognuno a suo modo. Anzi, tre, se contiamo l’ormai pluri-giubilata Russia, contro cui gli Usa hanno appena annunciato nuove sanzioni.

Guarda caso, gli stessi Usa hanno però scelto l’India e lasciato l’ingrato compito di inimicarsi per l’ennesima volta la Cina agli alleati obbedienti dell’Europa. Tra una supercazzola ESG e una promessa di remissione del debito, quantomeno per evitare che Pechino sostituisca il Fmi anche a livello ufficiale in quella parte preponderante di mondo che non è l’Occidente, quale sarà il fortunato estratto destinato a finire prossimamente nel mirino di questa financial guerrilla?

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