Signore e signori, l’inflazione non è più un problema. Quantomeno negli Usa. Tutti a strepitare sul +8,5% su base annua, in rallentamento dal +8,7% delle attese e in netto calo dal +9,1% del mese precedente (sempre su base annua). A livello di variazione mensile, siamo addirittura piatti. C’è un problema, però: la prospettiva. Perché lo studio di Bank of America svela il trucco: se anche da qui a dicembre su base mensile il CPI statunitense segnasse sempre +0,0%, a Natale gli americani festeggerebbero comunque con un’inflazione al 6,3%.
Giova ricordare che il target obiettivo è il 2%. E se invece la variazione mensile fosse del +0,2%? Sotto l’albero ci si ritroverebbe con prezzi al +7,6%. Basta andare a vedere lo studio della banca Usa, decisamente interessante. E in grado di aprire gli occhi, se lo si vuole. Perché il problema è altrove. Per l’esattezza, qui: mentre ci si arrovellava il cervello per capire se l’inflazione Usa avesse finalmente raggiunto il suo picco, ecco che le dinamiche salariali rivelate dalla media settimanale segnavano il 16° mese di fila di contrazione. Guarda caso, esattamente da quando Fed e Tesoro hanno stoppato i programmi di sostegno anti-Covid, il vero doping salariale su larga scala.
Cosa significa? Che per quanto fino a oggi la narrativa ci abbia consegnato un mercato del lavoro Usa in forma smagliante e con redditi da lavoro in costante aumento, in realtà trattasi ancora una volta di mera prospettiva: da 16 mesi a questa parte, l’inflazione si è mangiata tutto. Tutto. E questo accadeva anche quando per la Fed il fenomeno era da considerarsi meramente transitorio e unicamente frutto di speculazione. Direte voi: se l’inflazione è destinata comunque a restare il triplo del target obiettivo, prendendo il best case scenario di aumento su base mensile e i salari in continua erosione del potere d’acquisto, cosa mantiene ancora relativamente sotto controllo quel laboratorio socio-economico chiamato Stati Uniti, il cui Pil dipende ancora al 70% dei consumi personali?
Ce lo mostra questo secondo grafico: dopo 25 mesi di aumento continuativo, ecco che in luglio per la prima volta i prezzi del commercio on-line gli Usa sono calati. Di fatto, un prodromo di deflazione. Ovvero, alta inflazione in regime di bassa crescita economica. O pre-recessione tout court.
Ecco il trucco: far percepire al cittadino/consumatore/elettore un mondo che si sostanzia in un perenne Black Friday, occasioni ovunque, prezzi in calo ovunque. L’importante non è arricchire il popolo, ma non farlo sentire povero, mentre in realtà si sta impoverendo. Costantemente. E cosa rende possibile quel calo dei prezzi per gli acquisti in Rete? L’inflazione. Anzi, il suo effetto collaterale su domanda e offerta. Dopo l’esplosione dell’e-commerce dovuta ai lockdowns, ecco che ovviamente si sostanzia il cosiddetto bullwhip effect o effetto frusta: di fatto, nulla più che un mancato matching fra scorte e domanda, una disfunzione sulla catena di approvvigionamento delle offerte a fronte appunto di un calo del potere di acquisto e di contestuale rallentamento dell’economia. E come si possono far fuori le scorte, evitando che creino danni a lungo termine per i conti e i bilanci? Svendendo. Quantomeno per un periodo limitato e contingentato di tempo.
Esattamente quanto sta accadendo negli Usa: il raffreddamento dell’inflazione tanto strombazzato è quindi figlio legittimo di due dinamiche totalmente elaborate a tavolino. Prima la creazione di inflazione al fine di garantire alla Fed un processo drastico e spedito di aumento dei tassi che salvasse Wall Street dall’esplosione per eccesso di leverage, poi il suo congelamento attraverso il vaso comunicante di distorsioni di domanda e offerta che mascherano l’erosione del potere d’acquisto attraverso fisiologici processi di razionalizzazione degli extra-profitti da Covid e conseguente rally da riapertura.
Non c’è nulla di naturale in quanto sta accadendo a livello macro, è tutto artefatto. A uso e consumo delle Banche centrali e della loro necessità di alternarne cicli pressoché strutturali di Qe a esiziali pause di deleverage prima dell’esplosione incontrollata della bolla. Non a caso, i cicli economici sono diventati sempre più brevi e cadenzati da crisi sempre più drastiche: prima si ragionava di Boom&bust su base quinquennale, oggi ormai si fatica ad arrivare a un ciclo completo che duri tre anni fra espansione e contrazione dell’economie e conseguente balletto al rialzo e al ribasso dei tassi. D’altronde, la crisi della globalizzazione impone giochi di prestigio. Soprattutto per non rendere palese e visibile lo scenario di fondo. Quello di un mondo che, per proseguire sulla china di espansione monetaria e indebitamento sistemico ormai imboccata, necessita di inflazione sempre più alta sui target di medio periodo e di salari sempre più bassi.
La controindicazione potenziale di una simile dinamica? Le ghigliottine in piazza. E come evitarle in maniera democratica e indolore? Garantendo appunto allo schiavo di turno il suo shopping a prezzo calmierato e a intervalli regolari e sempre più ravvicinati, il Black Friday perenne appunto. Un qualcosa che permetta contestualmente al sistema di purgare gli eccessi e al cittadino di non sentirsi povero, nonostante la costante e carsica erosione del suo potere d’acquisto.
Non cercate il fascismo e l’autoritarismo dove non ci sono, guardatevi attorno. Anzi, riflettete un secondo quando digitate sulla tastiera il nome del vostro prossimo acquisto. E lo troverete, lì troverete la vera dittatura. In tutta la sua rassicurante spietatezza. Un po’ come il Grande Fratello, capace alla fine del romanzo di farsi amare. Esattamente come vi hanno fatto amare il debito.
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