Probabilmente tenere occupati i propri analisti su altro, mentre il comparto in patria sconta qualche rogna sull’esposizione al real estate Usa, è parso strategico. Forse, invece, a Deutsche Bank si sono persuasi che i segnali comincino a esondare. E per quanto uno possa ignorarli, i colpi di tosse del canarino nella miniera ormai sono convulsioni.



Questo grafico ci mostra come il livello attuale del cosiddetto Concentration Risk nelle equities USA abbia infatti un solo precedente nelle serie storiche: il 1929. Ovviamente, le dinamiche sono sideralmente differenti. E non paragonabili. Non fosse altro perché il leverage totale dentro cui eventualmente andrebbe a implodere una correzione drastica – senza dover scomodare un crash -, oggi avrebbe l’insostenibilità di uno tsunami.



Ma a differenza di allora, la Fed sa come disinnescare la bomba. Ha un intero playbook di trucchi e magheggi per rimandare il botto. E la March madness in arrivo ne mostrerà l’efficacia, fra drenaggio finale del reverse repo e termine dell’operatività del fondo salva-banche Btfp. Ora, il problema, però, va oltre anche al peso della concentrazione di quel 10% di top stocks rispetto all’intero mercato equities Usa, dipendenza che non conosce apparente riabilitazione.

Lo mostrano questi altri due grafici: il vero problema, quello non risolvibile attraverso artifici di stampa della Fed, sono la percezione e la deterrenza.



Nessuno ha il coraggio di andare short contro il comparto tech. L’open interest per scommettere su un calo delle Mag 7 è ridicolo. Odore della paura. L’altra immagine, però, ci mostra come – di fatto – le stesse Mag 7 in punta di realismo non esistano. Abbiamo in realtà un Mag 2. Ovvero, Nvidia e Meta. Le altre 5, a oggi, si sono limitate a inscatolare aria. E a rivenderla, come si fa con i turisti allocchi, ai partecipanti stessi al Circo Barnum del Fomo. Tutti complici. Tutti coinvolti. Ma in una situazione simile, quanto rischia di crescere – con il passare del tempo, l’aumentare delle distorsioni e l’incipiente necessità di riscontri reali per certi multipli e guidance – il rischio che qualcuno decida di farsi coraggio, sfidare il tabù di deterrenza di quello short interest e convincersi come sia meglio scendere dalla giostra ancora in movimento per primo? Magari rischiando una frattura. Ma non l’osso del collo.

E cosa sta tenendo insieme con la colla il mercato obbligazionario, reduce da un bimestre di inizio anno con emissioni corporate e sovrane record, nonostante i tassi ancora alti? La necessità collettiva e condivisa dell’hide-to-maturity. Sì, hide e non held. Non mantenere ma nascondere. Negli anfratti di bilancio. Nei Level 3. Ancora meglio nelle unrealized losses da record, le stesse perdite potenziali su assets iscritti a bilancio che ora la Fed farà sparire attraverso il caos calmo e controllato della March madness monetaria. Ma se qualcuno, esattamente come per la presa d’atto riguardo i piedi d’argilla del tech, rompesse i ranghi e vendesse per primo e prima della scadenza, che accadrebbe? Yukio Mishima direbbe poeticamente che si danza nel cratere del vulcano.

La domanda da porsi è una sola: cosa determina la riuscita di una festa? Il numero di partecipanti. Certo, la musica è importante. Il catering altrettanto. Ma alla fine, il chi c’era offre uno spaccato chiaro quantomeno di un aspetto: l’appeal di chi la organizza. Ovvero, se gode ancora di seguito e ammirazione. O se comincia a perdere colpi e attrattività

Bene, l’euforia di mercato da Nvidia dell’ultima settimana può essere paragonata a una festa. E in effetti, numeri delle chiusure alla mano, lo è stata. Ma in quanti hanno partecipato? In base alle metriche che scattano su rialzi dello Standard&Poor’s 500 superiori al 2%, la scorsa settimana solo il 73% dei titoli quotati sulla Nyse ha partecipato al party. Ovvero, ha conosciuto rialzi. La più bassa partecipazione per un up day dal post-elezioni Usa del 2020. All’epoca, a fronte di un +2,2% si registrò solo il 47% di partecipazione. Da allora, la media è stata del 92%. Dati stilati da quei catastrofisti di Bloomberg.

Ma c’è dell’altro. Negli ultimi 60 anni, solo tre volte un +2% dello S&P’s è stato accompagnato da tassi di partecipazione inferiori al 60%: 1987, 2008 e 2020. Ora, date un’occhiata al grafico. Ci mostra l’andamento del Trin o Short-Term Trading Index. Si tratta di un indicatore di mercato che compara aumenti e cali dei titoli con aumenti e cali del volume. Letture al di sotto di 0,5 storicamente mostrano una pressione di acquisto determinata da alta domanda per le equities, al di sopra di 2,0 invece sintetizzano un concetto altrettanto già chiaro di suo: dumping equities. Si vende. Ovviamente, in punta di piedi e senza dare nell’occhio, stante i rialzi che si traducono pavlovianamente in titoli di giornale e trionfali tweets su X.

Il rally di giovedì scorso ha segnato 1,3. Ovvero, nonostante l’euforia al suo massimo dopo i conti di Nvidia e l’entrata di orbita di SMCI, la pressione di acquisto a Wall Street è stata ben al di sotto del picco di fine 2023. A detta di Charlie McElligott di Nomura nella sua newsletter, l’analogia più forte della settimana di trading appena conclusa si può trovare con quella del 7 gennaio 2000. In termini di movimenti spot, volume e breadth di mercato. Soltanto coincidenze, come per il Concentration Risk al livello del 1929? Numeri gettati nel ventilatore, così per creare un po’ panico immotivato a fronte di un mercato che pare costruito in teflon? Forse. Ma se tutto è così roseo, perché l’oro ha appena concluso la miglior settimana da inizio anno e con 6 degli ultimi 7 giorni di contrattazioni chiusi sui massimi di giornata? Se l’Intelligenza artificiale è la leva che solleverà il mondo, perché il vecchio, desueto e inutile lingotto resta in area 2.037 dollari l’oncia? E sale.

Anche questa, forse, è una domanda semplicistica. Il rasoio di Occam dei nuovi massimi di Dax e Nikkei a fronte di rispettive economie entrate in recessione, lo prova. Altro che Trin. Insomma, tranquilli: questa volta è differente. O, almeno, così vogliono farvi credere a tutti i costi. Magari, invece, certi eccessi nella gestione della piazza di queste ore sono prove tecniche. Per scenari argentini.

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