Chissà, forse il Cremlino è riuscito a tendere le sue spire fino all’International Energy Agency. Come Kaa, il serpente de Il libro della giungla. O forse, più semplicemente, ci hanno preso per i fondelli. E fra poco il conto verrà presentato al tavolo. Perché dopo un anno abbondante di guerra e sanzioni, price cap e congelamento beni, mi scuserete ma fatico davvero molto a comprendere come l’Europa possa ancora dipendere in modo esiziale dal gas russo, come confermato appunto dall’IEA e rilanciato con grande enfasi martedì dal Financial Times. Non eravamo tutti allegramente affrancati dal ricatto moscovita? Non abbondavano fonti alternative, dal Qatar all’Algeria fino al costoso LNG statunitense? Forse all’IEA sanno qualcosa che noi comuni mortali ancora ignoriamo. O che vogliamo ignorare. E utilizzo e verbo volere, perché adesso deve cadere anche l’alibi dei lavaggi del cervello di massa. A questo punto, ci vuole volontà per non rendersi conto di come l’Ucraina sia divenuta faccenda totalmente interna all’Europa. Negli Usa nemmeno se ne parla più. Se non per svuotare i magazzini da quelle bombe a grappolo così spiacevoli da mostrare in società e terribilmente costose da stoccare.
Detto fatto, il comparto bellico-industriale si ritroverà con depositi pieni di spazio. E ordinativi per riempirli. Ci vuole volontà per non rendersi conto della reiterazione da giorno della marmotta del playbook Nato: si torna a colpire il ponte in Crimea, si torna a minacciare crisi sulle commodities alimentari, riportando l’accordo sul grano al centro della disputa. Tutto già visto. Ma squadra che vince non si cambia. L’Ucraina è una criticità solo per l’Ue e per il Vaticano. In Cina le preoccupazioni sono altre, si chiamano Pil e disoccupazione giovanile. I ponti della Crimea non interessano, si discute delle paratie monetarie e della modalità con cui alzarle per liberare l’ennesimo flusso di liquidità. Easing floodgates, l’immagine che nelle ultime ore sta eccitando i trading desks. Nel frattempo, si ingannano attesa e opinioni pubbliche con esercitazioni congiunte insieme alla Russia. tanto per operare “a specchio” rispetto al wag the dog militarista di Usa e Giappone.
Ora date un’occhiata al grafico nei commenti: a oggi, le riserve strategiche Usa di petrolio sono al minimo da 40 anni, come mostra il grafico. E, in caso di necessità emergenziale, il livello attuale garantisce solo 20 giorni di forniture.
Stando a un report di Bloomberg, la facility di stoccaggio di West Hackberry è pressoché vuota. Ci vorranno decenni per operare un refill, ammesso che questo mai accadrà, sentenzia l’articolo. Dove pensate che andrà il prezzo del petrolio, unendo le potenziali criticità di riserve statunitensi e nuova crisi energetica europea? E se la Russia usasse quell’arma, sicuri che Qatar, Algeria e gli stessi Stati Uniti non sfrutteranno l’occasione per speculare sui prezzi? Chissà, forse all’IEA sono tutti long. E disperati. O forse a Bruxelles sono solo stupidi. Permettetemi un invito alle PMI italiane, in vista dell’autunno: trovate in fretta consulenti e analisti che capiscano di geopolitica, più che di conti. E leggano l’FT. Ma non basta. Per Agatha Christie, infatti, una prova necessita di tre indizi. Due equivalgono solo a una coincidenza. Speranzoso di trovare l’ultimo entro la fine della settimana, ecco il secondo. Perché dopo aver scomodato il blazer blu degli alibi, appunto la crisi energetica da interruzione di fornitura russa, ecco che nella City hanno sentito il bisogno di togliere dall’armadio addirittura il tubino nero dell’emergenza: Evergrande. Più che un costruttore, il capro espiatorio perfetto per ogni Qe senza preavviso. Un po’ monsieur Malaussène, un po’ Mister Wolf, ecco che il conglomerato cinese torna a fare capolino lungo la linea d’orizzonte di un mondo instabile. Addirittura 81 miliardi di perdite legati alla crisi immobiliare cinese, un’apocalisse. Cui occorre unire il coté rilanciato da Bloomberg, a detta della quale almeno due detentori di bond denominati in dollari di Sino-Ocean Group starebbero ancora attendendo il pagamento di un coupon.
Dèjà vu totale. Prima la Russia che chiude i rubinetti, nonostante la retorica da isolamento globale di Mosca. E ora il Minsky moment cinese innescato dall’ipertrofico comparto immobiliare e dal suo pachidermico debito. Molto del quale, in capo a shadow banking. Per ora, scenario da stampa di settore. Pochi giorni e l’allarme diverrà di dominio pubblico. Da un lato, buon segno: i mercati non preparano shock sistemici controllati nei sonnacchiosi volumi estivi. Altrimenti, perché mostrare il dito già sul tasto print? Dall’altro, qualche domanda.
Primo, in quale mondo viviamo, se a rassicurarci deve essere la creazione di nuovo debito per tamponare quello esorbitante che diviene instabile come semtex? Semplice, perché nell’iperuranio del Qe perenne, il debito rappresenta il motore immobile. E, come mostra questo secondo grafico, quando si torna a perdere valore dei bond su trend simili, occorre aprire le chiuse della liquidità.
La Pboc sta per regalare la August surprise? Evergrande, di fatto, è come la pubblicità del panettone: quando compare, meglio addobbare l’albero e fare il conto alla rovescia per Una poltrona per due.
Secondo, se fosse vera quella perdita monstre in cui è incorso il gigante delle costruzioni cinesi, come dovremmo valutare il suo essere ancora vivo e vegeto, nonostante gli annunci di default imminente, credibili quanto l’esborso della terza rata del Pnrr? Che la Cina fa il bello e cattivo tempo. E che, di fatto, è il prestatore di ultima istanza del mondo, il Fmi del capitalismo straccione da Banca centrale. Prospettiva tutt’altro che rassicurante, soprattutto alla luce della scelta di alcuni Governi Ue – Italia in testa – di ridurre ai minimi termini i rapporti con Pechino. Come cantavano le Bananarama, quella in corso rischia di rivelarsi una cruel summer. E non solo per le temperature sahariane.
Attenzione, la campagna allarmistica sta scaldando i motori. Ora manca il terzo indizio. Propenderei per un allarme pandemico per l’autunno via Oms. Magari sempre in Cina. E saremmo a tre indizi. Ovvero, una prova.
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