Come volevasi dimostrare, due giorni fa non sono scattate le nuove tariffe commerciali fra Cina e Usa. Anche i sassi, in effetti, sapevano che quel nuovo stock di dazi sarebbe andato a incidere – pesantemente – su beni di larghissimo consumo per l’americano medio, quindi avrebbe implicitamente posto fine alla pantomima portata avanti finora. Pena un’impennata inflattiva reale che poco si concilia con la nuova politica di stimolo monetario della Fed. Si sarebbe cominciato a fare sul serio, insomma. A porsi delle domande. E nessuno dei due attori in commedia può permetterselo.
Nemmeno a dirlo, l’alibi che ha visto Donald Trump scattare come un centometrista verso il suo studio per firmare l’atto che bloccava l’ingresso in vigore del nuovo regime di penalizzazione dell’import è stato il 1372mo raggiungimento di un accordo sulla cosiddetta Fase uno, questa volta – sintomo di disperazione estrema – confermato da entrambe le parti in via ufficiale, ancorché con qualche distinguo e qualche residuo di dignità da parte cinese. Contenuto? Nessuno, tutto formalmente top secret. Tranne uno, lo stesso sbandierato da Donald Trump da mesi e mesi a fine meramente elettorale: gli acquisti di export agricolo statunitense da parte di Pechino, una vera e propria boccata d’ossigeno per i coltivatori a stelle e strisce, Mid-West repubblicano in testa.
E per rimarcare al massimo quest’unico punto di accordo fatto filtrare, quasi a voler usare un evidenziatore umano in favore di telecamere e taccuini, ecco che la conferma è giunta dal Rappresentante Usa per il Commercio, Robert Lighthizer in persona. Come dire, se lo dice lui, c’è da crederci. E il nostro uomo non ha badato a spese, non ha mostrato il proverbiale “braccino corto” nello snocciolare cifre: la Cina comprerà 40 miliardi di prodotti agricoli americani nel 2020 e si sta già lavorando affinché quella cifra salga a 50 miliardi nel 2021. Di più, stando a Lighthizer, le discussioni intavolate dovrebbero portare in generale un aumento del commercio Usa con la Cina nei prossimi due anni per un controvalore di 200 miliardi di dollari. Accidenti, un colpaccio! Non a caso, comunicato – ancorché in maniera decisamente arruffatta e confusa – venerdì scorso, quando mancavano poche ore alla chiusura di Wall Street.
Direte voi: indici alle stelle per l’ennesima volta, entusiasmo palpabile. No, chiusura in positivo ma nulla di che. Anzi, i rialzi attivati dalla notizia sono stati quasi tutti bruciati nell’arco di pochi minuti. Come mai tanta freddezza? Ce lo mostrano, nella loro plastica spietatezza, questi due grafici, dai quali si desume che per dare seguito alle promesse di Lighthizer e del suo datore di lavoro alla Casa Bianca, la Cina il prossimo anno dovrebbe quadruplicare gli acquisti di generi agricoli Usa rispetto al 2018 e più raddoppiarli rispetto al 2017.
Chissà, tutto può accadere. Peccato che, al netto dell’epidemia di febbre suina che ha devastato gli allevamenti e mandato alle stelle i prezzi del prodotto alimentare più diffuso, Pechino abbia già trovato fonti alternative di approvvigionamento agricolo, soprattutto per la soia, in America Latina. E proprio parlando di soia, ecco che il secondo grafico mette in prospettiva a magnitudo dell’ennesima panzana spacciata al mondo, questa volta però smascherata in tempo reale anche dalla reazione a dir poco indifferente di Wall Street: per raggiungere il controvalore di import agricolo annunciato da Lighthizer, infatti, la Cina dovrebbe comprare – a prezzo maggiorato – l’intero raccolto di soia statunitense e ancora avrebbe margine di acquisto su altri beni agricoli.
Ma, come potete notare, anche in questo caso darebbe vita a un aumento delle importazioni che si tradurrebbe in una dipendenza pressoché totale dall’America: da quando due nemici si legano l’un l’altro in questo modo, dipendendo totalmente dalle disponibilità altrui per una merce di importanza fondamentale come le derrate alimentari? Non ci vuole Sun-Tzu per capire che si tratterebbe di un suicidio strategico. E tutto si può dire di Xi Jinping, tranne che pecchi in strategia. Inoltre, ulteriore prova del nove, il fatto che il prezzo delle materie prime agricole, così come quello del rame, sia rimasto totalmente fermo dopo l’annuncio, dimostra come il mercato – ovvero chi scommette e rischia davvero del suo – abbia già prezzato l’ennesimo bluff, escludendo a priori un reale aumento nella dinamica della domanda/offerta.
Perché allora questa necessità di gettare ancora fumo in faccia al mondo, oltretutto in una stanza che ormai ha le finestre della realtà spalancate e fatica sempre di più a prendere per vere certe comunicazioni? Semplice, perché fa comodo a tutti. E questa volta non tanto perché gli up-and-down sul commercio garantiscono il controllo eterodiretto di Wall Street e con essa la stabilizzazione implicita anche del mercato azionario cinese, una bolla che cammina oramai. Bensì per un motivo molto più serio contenuto nell’ultimo studio di Deutsche Bank e mostratoci plasticamente da questi due grafici: stando a calcoli del centro studi della banca tedesca – tutt’ora di prim’ordine -, l’anno prossimo la Fed – grazie alle emergenze di mercato che hanno riattivato la sua stamperia – comprerà il 40% delle emissioni nette di Treasuries (inclusi i Bills) del Tesoro Usa, circa 420 miliardi di dollari di controvalore tramite operazioni sull’open market. Di fatto, prestatore di ultima istanza, acquirente marginale.
Insomma, il cavaliere bianco del sempre crescente deficit statunitense attraverso una palese operazione di monetizzazione diretta del debito. Ma per farlo, occorre il clima di pericolo permanente sui mercati. Lo stesso che, come vi ho spiegato nel mio articolo di sabato, ha visto la Fed aumentare a dismisura il numero di aste term e repo nel prossimo mese, mettendo di fatto a disposizione del sistema qualcosa come 500 miliardi di dollari di liquidità, da qui a fine gennaio. Motivo? Anche in questo caso, un comodo alibi (ancorché reale): le scadenze di fine trimestre/anno e i loro impliciti drenaggi di liquidità dalle riserve delle banche americane. La prima delle quali si è sostanziata proprio ieri, quando in contemporanea sono andati a scadenza 54 miliardi di stacco cedole su Treasuries e fra i 30 e i 50 miliardi di pagamento della corporate tax. Di fatto, un potenziale di 100 miliardi di liquidità in fuga dal sistema creditizio: tamponati, non a caso, dall’aumento del firewall della Fed annunciato solo giovedì scorso. E, altrettanto non a caso, l’asta term di ieri ha visto la disponibilità aumentata dai soliti 35 miliardi a 50 miliardi e la maturazione allungata al 17 gennaio, in modo da garantire il cosiddetto lock in della liquidità in riserva agli istituti per “scollinare” le scadenze da qui al 31 dicembre.
È tutto un gioco a incastri basato sul debito, un enorme schema Ponzi che questa volta riguarda addirittura il deficit federale, salito alle stelle sotto l’amministrazione Trump, ma già da tempo ampiamente fuori controllo a livello di traiettoria di spesa rispetto alle coperture. Et voilà, per trovare un punto di equilibrio – almeno nel breve termine – il Tesoro emette più debito e, a fronte di investitori esteri diventati freddini verso la carta Usa (come mostra il secondo grafico), si piazza quel debito ai cittadini americani e soprattutto alla Fed, la quale lo monetizza facendo tutti felici e contenti. Almeno fino a quando il sistema non gripperà. Ma, temo, ci vorrà un livello di espansione del bilancio della Federal Reserve a livelli giapponesi prima che qualcuno mostri un briciolo di buonsenso e si chieda se quella traiettoria da kamikaze non vada in qualche modo fermata.
Per ora, la giostra della stamperia globale continua a girare. Fra un alibi e una panzana, tutti in favore di telecamera. Tutt’intorno, consumatori felici che si indebitano all’infinito e spendono per il Natale. That’s life.