A mio modestissimo avviso, la dinamica in atto non necessita di scomodare il genio strategico di Sun-Tzu per essere decofidicata. Non si sa come attivare il Mes senza scatenare pandemoni in seno alla maggioranza, soprattutto ora che i Cinque Stelle hanno già fatto marcia indietro su mandato e alleanze. Quindi, si sceglie la strategia dell’avvicinamento graduale. Primo, si fissa un obiettivo prioritario assolutamente bipartisan e inattaccabile: la riapertura delle scuole a settembre. Secondo, si comincia a bersagliare l’opinione pubblica con dati quotidiani di contagiati e numero di tamponi, un qualcosa che per almeno un mese e mezzo di post-lockdown era sparito dai tg e che ora è tornato in grande e ossessivo stile, nemmeno fosse Una poltrona per due il 24 dicembre. Terzo, si comincia un primo giro di vite, tanto light quanto simbolico: colpire la movida in piena estate, infatti, garantisce clamore mediatico ed effetto placebo emergenziale, ma – con buona pace dei gestori di locali da ballo – non ammazza il Pil come la serrata della manifattura.



Quarto, si attende speranzosi che il processo parallelo in atto in Spagna porti il buon Pedro Sanchez ad attivare il Mes in tempi brevi, rompendo per primo lo stigma (Cipro, a quanto pare, non conta nulla, visto che ha già da tempo fatto ricorso al Fondo salva-Stati, senza che sull’Isola arrivassero le truppe cammellate della Troika). Quinto, se anche Madrid dovesse stoicamente resistere (le terga politiche vanno preservate anche nella penisola iberica, mica solo nella nostra), agli inizi di settembre – se non già la prossima settimana, a rientro pressoché generale avvenuto nelle grandi città – partirà una sorta di mobilitazione generale, destinata a sfociare in una drammatica presa d’atto del Governo: stante i nuovi focolai e le condizioni attuali, è impossibile riaprire le scuole. Tragedia!!! A meno che… A meno che non si attivi il Mes, il quale garantisce 37 miliardi pressoché pronta cassa. Con cui, magari, acquistare anche qualche banco con rotelle semovibile in più.



Difficile a quel punto, trovare un’opposizione che salga sulle barricate tout court, poiché dall’altra parte si alzerebbe immediatamente il ponte levatoio civico del sacrosanto diritto allo studio dei nostri ragazzi, scomodando capitale umano, formazione della futura classe dirigente del Paese e tutto l’armamentario propagandistico che solitamente si mette in campo. Almeno dai tempi del ministro Franca Falcucci e di quando il sottoscritto faceva il liceo. Ora, la questione sostanziale è una sola: dobbiamo davvero preoccuparci? Davvero siamo alla vigilia della seconda ondata, come i numeri di Francia, Germania, Spagna e Regno Unito paiono dirci?

Impossibile saperlo. Più che altro, poiché è impossibile avere una versione univoca. I virologi televisivi si scannano fra di loro, passando da un estremo all’altro con assoluta nonchalance. I politici idem, visto che il ricordo dei carri militari per le strade di Bergamo pare sparito in nome della campagna elettorale per le regionali di fine settembre. Quindi, propaganda alla stato puro. Un problema c’è, però, al netto dei banchi di Goldrake della Azzolina e del pianto greco dei gestori di discoteche: in caso si arrivasse, Dio non voglia, a una politica di lockdown parziali che comunque rallenti ulteriormente le dinamiche produttive, il Paese reggerebbe l’impatto? La questione non è da poco. Ora, io capisco che in questa nazione la gente sia così aperta di mente da ascoltare anche uno come il professor Bagnai, capace di colpevolizzare chi dice che le casse statali sono vuote e utilizzando come argomento a suo sostegno i risultati delle ultime aste per dimostrare che l’Italia non ha perso l’accesso ai mercati. Però c’è un limite. Perché se al responsabile economico della Lega basterebbe far notare che se la Bce chiudesse oggi il Pepp noi perderemmo l’accesso ai mercato un minuto dopo (stante appunto le casse vuote e l’aumento insostenibile e immediato del premio di rischio richiesto), qui mi pare che nessuno si renda conto dell’evoluzione post-lockdown della situazione europea.

Davvero pensiamo che, stabiliti i termini del Recovery Fund con tanto di baruffa chiozzotta fra Conte e Rutte, tutto vada a posto da sé? Davvero pensiamo di non dover fare i conti con Cina e Usa, i quali sono consci di essere davanti a un’occasione storica per cannibalizzare l’antagonista più temuto, quantomeno a livello di dimensioni e ricchezza del mercato di riferimento? Ammesso e non concesso che i soldi del Recovery fund arrivino mai a Roma, pensate che il problema sia risolto con 209 miliardi (molto lordi, oltretutto)? Se le entrate fiscali continueranno a languire e il Governo dovrà continuare a supportare l’economia a colpi di scostamenti di bilancio, quanto ci vorrà prima di entrare in rotta di insostenibilità strutturale? Paradossalmente, dobbiamo temere la fine della pandemia, non la sua seconda ondata potenziale. Perché il nostro Paese, per come si sta muovendo la politica nel suo complesso, sembra convintosi che l’emergenza durerà in eterno. E con essa, deroghe e sussidi.

Non è così. Certo, di fronte a noi abbiamo ancora tempo. Non molto, ma sufficiente a raddrizzare la barca, se per caso qualcuno in grado di reggerlo e direzionarlo si mettesse al timone. La Germania, infatti, manda segnali molto contraddittori. La scorsa settimana, l’indice Zew relativo alla percezione di fiducia per i prossimi mesi da parte degli imprenditori è volato in orbita, segnando una lettura di oltre 80 contro i 55 punti attesi. Di fatto, tutto alle spalle. Poi, il numero di contagi ha raffreddato gli entusiasmi, fino alla doccia gelata di domenica: il ministro delle Finanze e candidato designato alla cancelleria per la Spd, Olaf Scholz, ha proposto che le misure di sostegno all’occupazione continuino fino a tutto il 2021, uno sforzo che costerebbe al Governo ulteriori 10 miliardi. E questo grafico mostra plasticamente la ratio sociale della mossa: a oggi, il numero di lavoratori a tempo determinato in Germania è molto più alto di quello presente durante la crisi del 2008-2009.

Insomma, si teme davvero un nuovo blackout produttivo tale da far saltare il tappo delle diseguaglianze salariali presenti nel Paese, quindi si arriva a prefigurare scenari quasi da paracadute reddituale. Al netto della componente elettoralistica e propagandistica della mossa e del suo timing, vi è anche un accento precauzionale macro che non si può ignorare: se la Germania mette in conto una mossa simile, quante sono davvero le possibilità di una seconda ondata e di un secondo, drastico lockdown? Il problema è che Berlino può permettersi esborsi e scostamenti record, stante i suoi conti pubblici. Noi no. Nemmeno attivando il Mes e nemmeno se davvero arrivassero i fondi del Recovery fund, i quali – al netto del dare/avere – rappresenterebbero comunque l’argent de poche per tirare avanti con gli stipendi pubblici e le pensioni per qualche mese, se davvero ci ritrovassimo dentro una replica della scorsa primavera.

Certo, il Governo ha detto che non ci saranno più nuovi lockdown totali, ma come può dirlo con certezza, se naviga a vista anche su questioni di stringente e quotidiana necessità come i controlli per chi rientra dall’estero, l’uso delle mascherine o la regolamentazione della movida, lasciate alla gestione patchwork delle regioni?

Cosa pensa Confindustria di una situazione simile, soprattutto alla luce della mossa di Olaf Scholz in Germania? La questione qui non è tamponare le perdite di questo o quel settore (ieri i ristoranti, oggi le discoteche), bensì avere un’idea di come affrontare il cosiddetto worst case scenario: l’Italia, a oggi, non ce l’ha. Per il semplice fatto che non ha un Governo, bensì una coalizione elettorale tutt’altro che coesa. Così si va a sbattere. Perché tutti, quantomeno in seno alla maggioranza, paiono ragionare in base alle logiche prefigurate dal Consiglio Ue di giugno: ogni volta che viene mosso un appunto, ecco spuntare il Recovery fund come la spada di Excalibur, il Sacro Graal di ogni soluzione. Signori, non è così. E non si può nemmeno continuare a fare debito con la scusa dello scudo Bce che comprime i costi e rende favorevole la finestra di emissione: comunque sia, basso che sia il premio di rischio, lo stock aumenta. E il Pepp, prima o poi, finirà. Anche perché, seguendo questa logica, poi si è obbligati a dare vita a vere e proprie battute di caccia fiscali come quella che, entro agosto, ha come obiettivo l’introito di 8,4 miliardi attraverso 246 scadenze, tra cui il saldo 2019 e il primo acconto delle imposte sui redditi con maggiorazione e senza proroga. E questo non è il sintomo plateale di casse vuote, al netto di quanto in discussione in Germania?

Qui il problema non è quello di tagliare il numero di parlamentari, magari per risparmiare quattro lire, bensì quello di azzerare il numero di dilettanti e incompetenti. Serve chi sa ragionare sul quinquennio, non chi è già in difficoltà a trovare soluzioni per i prossimi cinque minuti. E, magari, imporre al Paese i sacrifici e le riforme che servono e che non ha mai voluto fare, non farlo scorrazzare in monopattino con in tasca il reddito di cittadinanza. E serve adesso. Anzi, serviva già ieri.