E poi, come mai dopo l’euforia iniziale, gli indici di Borsa si sono sgonfiati, mano a mano che Mario Draghi parlava in conferenza stampa? Per un interrogativo sospeso di cui si teme la risposta: ma se la situazione è così grave, perché non agire subito e rimandare a settembre, affidandosi ancora agli annunci? Forse perché, a breve, si attende il casus belli. Quello vero.



Così chiudevo il mio articolo di ieri, dedicato appunto alle decisioni della Bce dopo il suo ultimo board prima della pausa estiva. E, in effetti, quella domanda assume ancora più senso oggi, quando le cronache provenienti da Francoforte parlano chiaro al riguardo di una spaccatura senza precedenti in seno al Consiglio direttivo. Guidata, nonostante i segnali distensivi che aveva lanciato nell’ultimo periodo, proprio da Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank. Di fatto, quindi, dalla Germania. Il motivo? Appunto quello che tratteggiavo nel mio articolo di ieri: i rischi connessi a un ulteriore taglio dei tassi per le banche tedesche, giudicati superiori rispetto ai benefici in chiave di tenuta dell’euro sul cambio internazionale e, quindi, di supporto implicito all’export europeo in tempi di guerra commerciale. Quindi, tassi fermi e, soprattutto, nessun dettaglio riguardo al nuovo programma di Qe.



Anzi, in serata, Cnbc ha fatto emergere il fatto che lo stesso Draghi avrebbe ammesso il palesarsi in sede di board di un qualcosa in più della mancanza di unanimità rispetto al nuovo pacchetto: di fatto, dopo il blitz di Sintra mal digerito da Bundesbank e “falchi” del Nord a essa storicamente alleati, questa volta SuperMario ha dovuto piegarsi al principio di collegialità. E rimandare tutto alla prossima riunione, prevista per il 12 settembre. Di fatto, la sua ultima a livello operativo, visto che la successiva cadrà il 24 ottobre, ovvero a una sola settimana dall’addio ufficiale all’Eurotower. Sarebbe decisamente irrituale, ancora più del discorso di Sintra, decidere di andarsene “col botto”. Sicuramente a settembre il nodo sarà risolto e, tramite i soliti equilibrismi interni, si arriverà a una quadra, non fosse altro per garantire a Christine Lagarde un solido pilota automatico per i primi, complicati mesi di guida della Banca centrale.



Ma la Germania ha inviato chiaro e tondo il suo segnale, duplice, dopo mesi di appeasement strategico e un po’ imposto dall’appuntamento elettorale di fine maggio. In primis, segnale di stretta attualità politica e meramente di interesse nazionale. Se infatti, sempre come dicevo ieri, una discesa ulteriore in negativo con i tassi avrebbe potuto rappresentare, anche solo a livello di percezione, un possibile pericolo per i risparmi non solo dei cittadini più abbienti, ma anche della classe media, fornendo un’arma di propaganda anti-governativa e anti-europea insperata ad Alternative fur Deutschland, i soliti bene informati fanno notare come un colpo simile alla profittabilità bancaria, nel pieno del periodo inaugurale del piano di ristrutturazione, avrebbe potuto uccidere sul colpo la residuale credibilità di mercato di Deutsche Bank, trascinando in un domino di sfiducia anche Commerzbank.

Insomma, i tassi si taglieranno – anche perché vi è la quasi certezza che dopo l’estate Donald Trump farà partire una campagna sanzionatorio contro l’Ue in grande stile, proprio per garantirsi un deprezzamento monstre (si dice che punti a un -20% dal livello) del dollaro sull’euro – ma non ora. E non, soprattutto, lasciando intendere che Mario Draghi abbia potuto fare e decidere tutto da solo, come a Sintra, per l’ennesima volta.

Quindi, se i mercati azionari hanno reagito male al mancato taglio dei tassi e ancora peggio all’assenza di particolari riguardo il nuovo Qe prospettato, paradossalmente a preoccupare deve essere altro. Almeno, nel breve periodo. Per l’esattezza, questi due grafici, i quali mettono in prospettiva la profondità della crisi economica che sta vivendo la Germania. Il primo ci mostra come il sentiment fra gli operatori del comparto industriale-manifatturiero tedesco sia ai minimi da sei anni. E ben lungi da un possibile rimbalzo strutturale.

Il secondo è ancora peggiore, se possibile. Perché ci mostra come il proxy più affidabile in assoluto rispettivamente all’ingresso in recessione dell’economia di Berlino, ovvero lo spread fra Bund a 3 mesi e a 5 anni, oggi sia andato in inversione e si trovi in territorio negativo per la prima volta dalla grande crisi finanziaria. L’ultima volta che infatti quel campanello d’allarme suonò in questo modo fu l’agosto del 2008, poco prima del collasso di Lehman Brothers e dell’inizio del terremoto globale. La linea rossa del grafico, in perfetta corrispondenza di trend con quella dello spread “interno” fra titoli tedeschi, riguarda la lettura sul comparto manifatturiero: già oggi in recessione conclamata e ufficiale.

Ovviamente, quanto scritto finora avrà fatto imbizzarrire molti spiriti anti-tedeschi e rinfocolato ardori che parevano sopiti dopo il clamoroso flop in sede comunitaria post-26 maggio. Ma attenzione, pensateci bene. E fatelo sempre tenendo a mente il dato che vi ho ripetuto più volte: negli ultimi due anni tracciati, 2017 e 2018, l’interscambio commerciale fra Italia e Germania è stato da record assoluto. Molto più che con la Russia, al netto delle sanzioni. Molto più che con la Francia. Molto più che con tutti, per quanto sia bersaglio di ridicole critiche da stereotipo del sandalo con il calzino. È il nostro primo partner commerciale. Ed è in recessione netta, oltretutto con un sistema bancario in condizioni di salute decisamente precarie.

Qualche genio della strategia, qualche Sun-Tzu all’amatriciana, griderebbe all’occasione storica per assaltare il fortino e prendere la guida dell’Europa in nome del sovranismo e di quota 100. Chi invece ragiona e fa i conti con l’economia vera, si rende conto che una cosa è essere degli scendiletto dei tedeschi, un’altra pensare al proprio interesse. Che a livello economico-manifatturiero, coincide nel nostro caso con quello di Berlino. Non di Parigi. Parlano le cifre, non le chiacchiere della politeia. E per capire quale sia il rischio cui andiamo incontro ci ha pensato non più tardi del 23 luglio scorso l’Assemblea annuale di Federmacchine, l’associazione legata a Confindustria dei produttori di macchinari industriali. Ovvero, coloro che producono ciò che serve a chi produce. Alle mitiche “fabbrichette”, ai capannoni del Nord-Est e Nord-Ovest del nostro Paese. Al “partito del Pil”, come lo chiama qualcuno. E, soprattutto, al gigante tedesco.

Bene, cosa ci hanno detto questi termometri umani dello stato di salute dell’economia reale, non solo interna ma europea e mondiale, visto il livello di export delle nostre ditte, un’eccellenza assoluta del comparto? A latere dell’elezione di Giuseppe Lesce alla guida dell’associazione per il biennio 2019-2020, sono stati infatti presentati i risultati dell’industria italiana del bene strumentale. E cosa ci dicono, per sommi capi? Chi vuole può leggersi il comunicato ufficiale, altrimenti fidatevi del mio riassunto molto per sommi capi e in parole povere: 2018 più che positivo, 2019 stazionario quasi da encefalogramma piatto, ma, attenzione, prospettive per il 2020 da mani nei capelli. E, guarda caso, a pesare è il rallentamento più profondo, severo e prolungato del previsto dell’economia tedesca. Il 40% dei produttori di macchinari rappresentati da Federmacchine è in Lombardia, gente che crea ricchezza, occupazione, innovazione, ricerca. E che oggi ha paura. Non dell’Europa, senza la quale sarebbe rovinata, dati dell’interscambio alla mano. Ma dell’incertezza e della mancanza di un piano strutturale per l’economia che vada oltre una flat tax senza fondi per essere finanziata e per pochi intimi (definita “un enigma” dallo stesso ministro Luigi Di Maio non più tardi di ieri mattina a SkyTg24) o il reddito di cittadinanza che sta creando un deserto di matching occupazionale-formativo reale, popolato solo da tribù di sussidiati.

Signori, se si ferma questa parte del Paese, si ferma tutto. E questa parte del Paese, al netto delle idiozie ideologiche anti-tedesche che purtroppo hanno sempre più diritto di cittadinanza e sostegno, ha bisogno dell’Europa come dell’aria che respira: per esportare, fatturare, crescere, diventare protagonista, eccellere. O volete forse i cinesi del memorandum, quelli che arrivano, conquistano e scalano a colpi di aumenti di capitale cash e poi svuotano il know-how e salutano? O volete forse i russi, i quali senza il ricatto energetico all’Europa sarebbero in recessione fissa e con l’unica industria fiorente e profittevole legata agli armamenti e alla guerra perenne come moltiplicatore del Pil? O aspettate magari il venture capital americano, quello che tratta le aziende come carte del poker? Io so una cosa sola: meglio che il Governo, nella persona del presidente Giuseppe Conte, tagli corto le vacanze e convochi il più in fretta possibile un tavolo di confronto – serio e fattivo, però – con i presidenti delle Regioni che hanno richiesto l’autonomia differenziata, Lombardia e Veneto in testa. Altrimenti prepariamoci a una secessione de facto del Paese. E non nel 2040 e come ipotesi estrema, quasi da fantapolitica, ma già a partire dal prossimo inverno. Perché quando il Nord di questo Paese comincerà a vedere i default delle Pmi assumere i profili di un tragico effetto domino, verranno meno tutte le mediazioni.

E nonostante l’abbia pubblicato ieri, oggi ripubblico questo grafico e lo farò a scadenze fisse, fino allo sfinimento: nell’eurozona, oggi, le cosiddette “aziende zombie”, ovvero incapaci di finanziarsi e reggere i costi fissi attraverso il flusso di cassa, sono percentualmente ai massimi dalla crisi finanziaria globale, quasi al 14%. E non pensiate che la situazione possa essere risolta dagli eventuali nuovi acquisti corporate della Bce o dalle aste di rifinanziamento bancario: primo, perché occorrerebbe comprare quella carta privata con il badile, secondo perché per come sono messe realmente, le banche useranno i soldi quasi gratis di Francoforte unicamente per tamponare buchi e sistemare bilanci, non certo per erogare credito a famiglie e imprese. Unite a questo il rischio, a mio avviso pressoché certo, di una campagna tariffaria e sanzionatoria degli Usa contro l’Ue entro fine anno e avrete il quadro di cosa aspetta all’economia reale italiana e alle Pmi del Nord in testa.

Insomma, sarà lotta per sopravvivere. In punta di Pil questa volta, non del Dio Po. E a quel punto sarà tardi per spaccare il capello in quattro sulla scuola regionale che mina l’unità del Paese. Il Paese sarà già diviso nei fatti.