Non pensiate che io ce l’abbia con Luigi Di Maio a livello personale, lungi da me. Umanamente è persona certamente degna, probabilmente anche molto simpatica e affabile. Il problema è che queste doti non sono sufficienti a ricoprire un ruolo delicato come quello di ministro degli Esteri di un Paese del G7. Soprattutto in tempi come quelli che stiamo vivendo. Non so se ci avete fatto caso: dopo l’incontro con Mike Pompeo, a chi gli chiedesse come l’Italia potesse contemperare i propri impegni atlantici – testé rinnovati e ribaditi in maniera ufficiale – con l’apertura verso la Cina compiuta attraverso il memorandum di intesa della scorsa primavera, il ministro ha giocato d’astuzia, salvandosi in corner con la solita narrativa. Ovvero, Cina e India sono il mercato del futuro e l’Italia deve guardare a quei Paesi per l’export delle proprie merci, aggredendo quote. Formalmente, non fa una piega. Il problema è: possiamo credere a questa realtà?
L’India, ad esempio, è davvero lo stesso Paese di 5 anni fa, con le medesime prospettive di crescita, con la medesima affidabilità? No. E fa decisamente sensazione – e anche un po’ paura – il fatto che in perfetta contemporanea con le parole di Luigi Di Maio, proprio da quella nazione arrivasse la notizia del commissariamento d’urgenza della Punjab Maharashtra Co-Operative Bank (PMC), istituto bancario locale fa i più grandi, scoperto dalle autorità a falsificare i bilanci a favore della Housing Development and Infrastructure Ltd (HDIL), un operatore del campo delle costruzioni e dell’immobiliare, i cui crediti deteriorati o inesigibili venivano “nascosti” attraverso 21mila falsi conti correnti.
Tanto per capire la magnitudo della questione, il book dei prestiti della PMC ha un’esposizione pari al 73% del totale verso i contratti andati a quel Paese della HDIL. Non a caso, la banca è stata appunto commissariata. Con uno spiacevole coté: l’introduzione di controlli sul capitale per 6 mesi per circa 900mila correntisti e depositari dell’istituto. Eh già, perché una delle conditio imposte dall’intervento della Reserve Bank of India è appunto quella del congelamento dei conti, al fine di evitare qualsiasi generazione di nuovi prestiti e mutui che possa apparire sospetta. Questo, di fatto, si sostanzia in prelevamenti controllati e solo per un certo importo ai bancomat e agli sportelli (il corrispettivo in rupie di 100 dollari la settimana), limitato uso del contante, delle carte di credito, dei bonifici e degli assegni. Senza colpa, perché i pasticci li ha combinati la banca, non i suoi ignari clienti.
E signori, non pensiate che io vada a cercare le notizie con il lanternino solo per attaccare il ministro Di Maio: sia Reuters che Bloomberg hanno dato ampiamente conto dell’accaduto, comprese le manifestazioni di protesta dei cittadini che hanno visto “sequestrati” dalla sera alla mattina i propri conti. E non parliamo di un piccolo Paese, ma della “I” di BRICS, l’India del grande sviluppo e della crescita incessante. Ma, soprattutto, non parliamo di un caso isolato: questo grafico parla decisamente chiaro, rispetto all’esposizione dell’India come sistema bancario ai non-performing loans. Come si nota, prima dell’Italia – la cui situazione, oltre a essere decisamente migliorata nell’ultimo anno, non era comunque paragonabile a livello sistemico e di controvalori con quella di New Delhi – c’è proprio l’India, ex enfant prodige di quella sbornia di crescita a debito chiamata BRICS e non a caso già ribattezzata da alcuni analisti come la Ground zero delle sofferenze.
E nessuno finora – ovvero fino all’ultimo tantrum innescato sui mercati emergenti dalla Fed all’epoca ancora in fase di formale contrazione monetaria e dal dollaro in rafforzamento costante – ci aveva fatto caso, poiché la ricapitalizzazione (leggi salvataggio) da 32 miliardi di dollari autorizzata nel 2017 dal governo Modi aveva innescato un tale rally sull’indice Sensex, trainato ovviamente dal comparto bancario, da tramutare un potenziale disastro nell’ennesima prova della forza della ripresa globale, almeno per la narrativa mainstream. Non è andata esattamente così. E una prima riprova è giunta nel febbraio 2018 dallo scandalo della banca statale PNB: alcuni dipendenti di alto livello della quale avevano autorizzato dalla sede di Mumbai prestiti per 2 miliardi di dollari ad aziende rivelatesi inesistenti. Il più grande scandalo bancario della storia del Paese, ma ora i veri nodi stanno venendo al pettine, visto che la stragrande maggioranza delle sofferenze sono proprio in pancia a banche pubbliche o comunque a controllo statale, particolarità che si è immediatamente riverberata – in combinato con il rafforzamento del dollaro – sulla credibilità della rupia sul mercato forex, spedendola più volte al minimo storico.
Il rischio principale? Dopo un rallentamento del Pil, attestatosi al 6,7% nell’anno fiscale 2018 contro il 7,1% di quello precedente, ora il rischio è che la crescita collassi, in caso il credito si congeli del tutto o quasi. E stiamo parlando di un settore bancario dal valore formale di 1,7 triliardi di dollari che, a oggi, sconta qualcosa come 210 miliardi in sofferenze, quasi tutte concentrate appunto in istituti statali. E signori, chi mi segue da tempo, sa che utilizzo spessissimo indicatori come i credit default swaps o i tassi sull’interbancario o le variazioni sull’open interest – tutti proxy molto tecnici di possibili guai all’orizzonte – per delineare scenari che potrebbero poi divenire di crisi conclamata, seguendo la proverbiale regola del “canarino nella miniera”. Ma qui siamo già un passo avanti. Anzi, abbiamo già un piede nella crisi, perché quando le autorità devono commissariare le banche e imporre controlli sul capitale, limitando la libertà dei cittadini di disporre liberamente del proprio denaro, allora c’è da preoccuparsi davvero. E subito. A Cipro o in Grecia, senza andare troppo lontano, né geograficamente né temporalmente, ne sanno qualcosa.
E tanto per restare in tema, c’è un altro posto nel mondo dove i bancomat rispondono picche alle richieste di chi vuole prelevare, dallo scorso weekend: Hong Kong. In questo caso, non si tratta di una questione legata a insolvenze o magheggi degli istituti bancari, ma di una precisa strategia del movimento di protesta: distruggere a colpi di mazza i bancomat, renderli inservibili. A oggi, stando ai dati ufficiali, poco più del 10% dei cosiddetti ATM di Hong Kong sono fuori servizio, ma il panico, alimentato ovviamente dal web e da chi ne fa un uso strategico per far filtrare timori di un intervento a breve sui capitali da parte delle autorità filo-cinesi, è arrivato a un punto tale da costringere la Hong Kong Monetary Authority a emettere un comunicato ufficiale, nel quale veniva appunto denunciato “un deliberato e pericoloso tentativo di causare timore fra la popolazione”. C’è però un problema: il 5% di tutti i bancomat dell’ex colonia britannica sono oggettivamente fuori servizio per mancanza di contante da erogare al loro interno, tanto che i vari istituti sono stati obbligati a rinegoziare di corsa contratti con i portavalori al fine di ottenere più in fretta le banconote. Ma il caos sulle strade e il sempre maggior timore di incidenti sta decisamente rendendo più difficile, giorno dopo giorno, anche attività da business as usual come queste.
Unite una dinamica come questa, per ora più psicologica che reale, al dato invece decisamente acclarato delle vendite al dettaglio schiantatesi al -23% su base annua ad agosto (maggior calo in assoluto da quando viene tracciata la serie storica) e capirete che ci vuole davvero poco prima che la situazione precipiti, anche al netto delle fughe di capitali già in atto da almeno quattro mesi verso i conti correnti più tranquilli e rassicuranti di Singapore. E i continui vandalismi che stanno colpendo shopping centre e negozi stanno cominciando davvero a portare l’attività del commercio a una semi-paralisi, tanto che sabato scorso la governatrice Carrie Lam si è presentata in conferenza stampa attorniata da 14 dei suoi ministri per denunciare le violenze ad hoc del manifestanti, al fine di creare panico e danneggiare al massimo l’economia. Farlo è stato letto da molti come un atto, se non di resa, di impotenza: a cui potrebbe seguire l’unica conseguenza possibile, ovvero il commissariamento diretto della situazione da parte di Pechino, attraverso l’introduzione a tempo della legge marziale. Con tutte le conseguenze del caso che questo potrebbe causare, in primis a livello politico e di propaganda internazionale.
Il mondo è in fiamme, signori. Anche se non sembra. Come vi anticipavo la scorsa settimana, Recep Erdogan ha comunicato alla Casa Bianca la sua intenzione di invadere il nord della Siria: a quale gioco starà giocando questa volta, visto che quel Paese è di fatto un protettorato russo e che proprio Ankara è divenuta ultimamente partner commerciale a livello bellico di Mosca, compiendo lo sgarbo – da Paesi Nato – di acquistare batterie anti-missile da un “nemico”? Quale emergenza cova in seno alla Turchia (e alle sue riserve estere, gonfiate fino a oggi dagi swaps), da richiedere un azzardo tale? Vedrete che, quasi in parallelo, se New Delhi non riuscirà a trovare in fretta una via d’uscita al suo schema Ponzi bancario, le tensioni con il Pakistan sullo statuto del Kashmir ripartiranno in grande stile. Ovvero, con enorme eco mediatica.
Cortine fumogene ovunque, con un unico comun denominatore: il timore che la gente cominci davvero a capire la realtà. E ad avere paura. Nella fattispecie, vedendo colpiti i propri risparmi. Attenzione a come i nostri politici gestiranno la questione del contante, potrebbe essere un detonatore. Anche se la finalità dovesse essere quella sacrosanta della lotta all’evasione fiscale di massa. Perché la Borsa non fa paura, il conto corrente sì.