Ho la netta impressione che a Francoforte, causa allarme da coronavirus, Hermes abbia chiuso il suo punto vendita. Non si spiegherebbe, altrimenti, il fatto che Christine Lagarde si sia ricordata di essere a capo della Bce. E, alla vigilia del board di oggi, si sia altresì sentita in dovere di aprire bocca sulla crisi che stiamo vivendo. Meglio tardi che mai, direte voi. Visto il contenuto del suo messaggio, forse quella del mai appare un’alternativa troppo sottovalutata. “L’Europa rischia di dover affrontare una crisi in stile 2008, senza un’azione coordinata dei governi”, ha dichiarato. Di fatto, gridando al mondo che il Re è nudo. Ancorché appaia ironico che madame Lagarde si trovi a sua volta ad affrontare una crisi la cui soluzione è essenzialmente fiscale, operando invece da numero uno di un’autorità monetaria (il karma non perdona), occorre leggere tra le righe di quelle parole. Ovvero, non aspettativi troppo da me e dall’Eurotower. Di più, di fatto non solo ammette che le politiche espansive hanno fallito e che i tassi negativi non sono serviti a nulla, ma anche che ora sta agli esecutivi dei vari Paese prendere il mano il bastone e randellare.



Come? C’è l’imbarazzo della scelta. E non fatevi fuorviare dalle parole di Angela Merkel, ovvero la sua apertura a un accantonamento della politica di zero deficit, in ossequio alla lotta contro il virus: vi spiegherò dopo il perché è stata costretta a farlo. Ragionate su una contingenza, molto chiara e senza necessità di arrivare a logiche da dietrologia spicciola: solo i fatti. In base alle direttive emanate dai vari governi europei, uno dopo l’altro, gli assembramenti di persone sono vietati. Addirittura, i campionati di calcio, ove non siano stati del tutto sospesi, si giocano strettamente a porte chiuse. Nessuno, se non vuole incorrere nella sacrosanta reazione delle istituzioni, in punta di bene supremo della salute pubblica, può quindi permettersi il lusso di scendere in piazza e paralizzare il Paese, come ad esempio accaduto in Francia, se per caso e in nome della lotta alla recessione si mette mano alla legislazione sul lavoro o al sistema previdenziale.



Piazze vuote, causa virus. Parlamenti azzoppati e in modalità emergenziale. Lo stesso Europarlamento, guidato da casa da un David Sassoli in auto-quarantena, non ha nulla da ridire rispetto all’ordine del giorno della prossima settimana, ovvero la ratifica del Mes. In piena emergenza sanitaria. E signori, non c’è da stupirsi. Se la regola aurea di Wall Street è comprare quando c’è sangue che scorre per le strade, quella della politica è di operare quando le condizioni te lo permettono: e mai come oggi, la presunta volontà del popolo è contata così poco. Praticamente, nulla. Non appanichiamoci troppo, però. Per quanto riguarda l’Italia, occorre essere onesti, stiamo solo giungendo al naturale epilogo di quanto cominciato nel 2011: d’altronde, un po’ di colpa è anche nostra. L’Europa sarà pure stronza, scusate il termine ma quando sai di essere primo nella lista degli indiziati, eviti di metterti in mostra. Noi, invece, abbiamo voluto permetterci il lusso di un anno di governo che ha sfidato Bruxelles quotidianamente e, oltretutto, nel modo più stupido, infantile e inutile possibile.



Servivano il reddito di cittadinanza e quota 100, a questo Paese? No. Serviva sventolare i mini-Bot come alternativa codarda all’Italexit? No. Serviva altro. Ad esempio, una mega-operazione di abbattimento del cuneo fiscale: a quel punto sì, valeva la pena di fare la guerra contro l’Europa, se avessero avuto da ridire. E invece, nulla. Abbiamo continuato a fare debito, allegramente e a non cambiare una virgola di ciò che rende disfunzionale la nostra economia da decenni: eccoci arrivati al capolinea, se vogliamo che Mario Draghi – una volta arrivato alla plancia di comando – possa operare secondo necessità, prima occorre mettere la firma sul Mes.

Sarà un dramma? No. Non pensate, cari lettori, a manovre nottetempo alla Giuliano Amato, non pensate a espropriazioni delle riserve auree (di fatto, già ipotecate in sede di Target2), non pensate a chissà quale scenario apocalittico. Temete scalate bancarie ostili dall’estero? Ve lo dico oggi, 12 marzo, anzi lo scrivo così resta agli atti: nell’operazione Intesa-Ubi a uscire vincitrice sarà Credit Agricole. E non serve il Mes firmato o la crisi avviluppata da coronavirus delle ultime due settimane per saperlo: è noto da tempo, almeno da quando Intesa ha compiuto la sua mossa inattesa. E un po’ acrobatica.

Sapete perché parlo così, magari troppo ammantato di fatalismo? Al netto del vivere in un Paese che quotidianamente offre prova di propensione al suicidio, guardate questi due grafici, relativi alle performance di Deutsche Bank alla scadenza di ieri mattina, attraverso prezzo del titolo, cds a 5 anni e soprattutto CoCo bond. Sapete cosa ci dicono? Che al netto della Fed che ha tenuto in vita artificialmente l’istituto tedesco finora, temo che adesso siamo arrivati al redde rationem: per chi temeva catene di rischio sulla controparte, Deutsche Bank potrebbe essere diventata ora sacrificabile. D’altronde, ciò che c’era da spolpare, è stato spolpato in ossequio all’ultimo, patetico tentativo di salvataggio attraverso una bad bank il cui valore di mercato è oggi 6 volte quello dell’istituzione-madre a cui fa capo. Già così fa ridere. Anzi, piangere.

Il CoCo bond denominato in euro con rendimento 6% che ieri prezzava invece uno yield al 13% significa disperazione. Perché un bond convertibile ovviamente offre un premio più alto a chi lo detiene, ma anche a fronte di un rischio più alto, visto che raggiunto un certo livello, una parte dell’obbligazione viene appunto convertita in titoli azionari, questo per garantire un buffer di capitale alla banca emittente. Ma aumentare, di fatto, il numero di azioni in circolo nel corso di una spirale ribassista come quella delle ultime due settimane, sapete cosa significa invece? Gettare benzina sul fuoco dei cali. Disperazione, appunto. La quale diventa plateale nel momento in cui l’impennata del cds di Deutsche che vedete nel secondo grafico è stata resa possibile dalla comunicazione della banca tedesca di non esercizio dell’opzione di riscatto relativa alla prima data di call – il 30 aprile prossimo – sul bond denominato in dollari per controvalore di 1,25 miliardi e rendimento al 6,25%.

Cosa significa? Semplice, Deutsche Bank ha dovuto platealmente ammettere che, alla condizioni attuali, semplicemente non è in grado di rifinanziarlo. Siamo molto prossimi al proverbiale game over, per capirci. Ora è più chiara la mossa politica di frau Merkel, cari lettori? Stiamo navigando in acque finora inesplorate, oltretutto con nessuno al timone e con l’ecoscandaglio rotto. O, quantomeno, funzionante a giorni alterni. Per questo, mi affido a una sorta di fatalismo. Perché chiunque oggi vi parli di orgoglio patrio, sovranità nazionale, pugni da battere sul tavolo e altre fanfaronate buone per le trasmissioni di Mario Giordano, semplicemente non ha capito a quale evento spartiacque ci stiamo approcciando. Tutti quanti, ovviamente ognuno con il grado di resistenza allo shock che i comportamenti passati – soprattutto in fatto di conti pubblici – gli garantiscono oggi. Oppure, seconda opzione, vi sta prendendo per i fondelli. E, data l’aria che tira, non so cosa sia peggio.