La nuova crisi europea sta dipanandosi sempre più rapidamente e nitidamente lungo il binario simbolico e immaginario che unisce Francia e Grecia.

Dopo il titolo a 5 anni, ieri per la prima volta anche quello a 10 anni ha visto Atene finanziarsi sul mercato a condizioni migliori di Parigi.

Ma c’è di più. E paradossalmente di peggio. Lo mostra questo grafico.



Esattamente come accadde alla Grecia, all’orizzonte del tonfo macro transalpino e del suo deficit monstre c’è una sorta di vendetta olimpica, una maledizione a cinque cerchi, un Montezuma che corre a Maratona. Il dato PMI aveva infatti ingannato tutti con il suo rimbalzo del gatto morto agostano, dovuto interamente al doping dei Giochi olimpici. Il cui effetto però è risultato immediatamente un placebo. La linea rossa crolla infatti implacabilmente. E adesso, tutto diviene incognita. E che la paura cominci a perdere gli ultimi residui di pudore e si palesi con il suo volto pallido lo dimostra l’uscita di Christine Lagarde riguardo l’approccio da tenere nei confronti dell’Amministrazione Trump e della sua politica di dazi e tariffe.



A detta della numero della Bce – e mai come in questo caso, soprattutto ex numero uno del Fmi – occorre infatti che l’Eurozona non ceda alla tentazione della ritorsione ma praticare la mediazione al ribasso. In parole povere, comprare più beni e merci statunitensi per rabbonire il vulcanico Presidente. Un approccio tipico di chi sa di essere inferiore e deve, giocoforza, quantomeno limitare i danni.

E mentre l’Ue annuncia un taglio draconiano del personale nelle sue sedi di rappresentanza in tutta l’eurozona, segnale tutt’altro che rassicurante per i cittadini-contributori, ecco che a dirigere questa orchestra di strumenti stonati è chiamata la Commissione con meno sostegno parlamentare di sempre. Solo 10 voti di scarto rispetto alla maggioranza richiesta. Praticamente, un Governo di coalizione italiano. Pronto a cadere al primo stormir di foglia. E da gestire ci sarà molto, al netto dei rapporti con gli Usa e i risvolti diplomatici ed energetici dell’ennesima escalation con la Russia.



Se come ammesso dallo stesso Emmanuel Macron, il Governo francese non riuscirà a trovare una maggioranza per far passare la Manovra da 60 miliardi, il voto di sfiducia per Michel Barnier appare alle porte. E una crisi in piena regola garantita. Il tutto mentre nell’arco di tre mesi anche la Germania deciderà del suo futuro. A metà dicembre il voto di fiducia all’Esecutivo semaforo – ormai spento o quantomeno lampeggiante – e poi quello amministrativo anticipato del 23 febbraio. Ci mancherebbe soltanto una bella crisi di Governo in Italia, i cui prodromi si sono evidenziati nella giornata di mercoledì con i dispetti incrociati fra Lega e Forza Italia su canone Rai e sanità. Dopodiché, il caos sarebbe garantito.

E occorre fare attenzione a quello spread francese. Perché al netto della suggestione garantita dal differenziale inedito con la Grecia, ecco che Parigi comincia a scontare livelli di pressione sul finanziamento che sfondano record storici impensabili solo tre mesi fa, mentre ci si divertiva a scandalizzare il mondo con cerimonie di apertura e chiusura degne di un Circo Barnum.

Il grafico parla fin troppo chiaro: la quantità di debito francese detenuta da investitori esteri, infatti, sta accelerando la crescita dei differenziali e dei rendimenti. Perché con una Fed che opera da mazziere e che ora dovrà decidere se tagliare o mettersi in attesa dell’Inauguration Day, una crisi ritenuta sistemica di un Paese fondatore come la Francia potrebbe generare spontanei e autoalimentanti deleverage dai bilanci delle banche. Ma, soprattutto, fondi pensione e assicurazioni, più vincolate a condizioni di VaR e di rating per i loro portfolios. A quel punto, palla di neve in modalità Sofia Goggia.

E chi pensate che entrerà nel mirino subito dopo Parigi, stante lo stock di debito cui fanno riferimento i conti pubblici? La Germania – per quanto messa male – ha ancora spazio fiscale. L’incubo della tripla cifra nel rapporto debito/Pil è ancora a distanza di sicurezza. Noi no. L’Italia non ha possibilità di spesa. Esattamente come la Francia. Un doom loop molto più pericoloso e strutturale di quello tutto caricaturale fra Parigi e Atene. E con il reinvestimento titoli che a fine anno andrà in overdrive nel suo processo di smobilizzo dei titoli acquistati dalla Bce in seno al programma pandemico Pepp, saranno proprio banche, assicurazioni e fondi pensione a dover tirare la carretta sul mercato secondario. A quali costi? A quali condizioni di volatilità?

Sarà per questo che nel mondo bancario si registrano scossoni tellurici in queste ultime settimane? Non sarà che questa voglia matta di scalate e aggregazioni altro non sia che un rituale amoroso per mascherare la necessità di fare fronte comune, prima che qualcosa vada nella direzione di mercato opposta e salti qualche banco? Il blitz Unicredit-Bpm è stato solo un bacio in favore di Credit Agricole per farla ingelosire?

Insomma, attenzione. E quando sentite qualcuno che festeggia lo sprofondo del rublo sul dollaro come seppur tardivo successo delle sanzioni contro la Russia, fermatevi e prendete atto di una realtà incontrovertibile. Il costo di questa vittoria di Pirro – se Mosca andasse in crisi reale, Pechino arriverebbe a tempo zero a rimpinguare le riserve estere con uno swap, esattamente come ha fatto con la lira turca per due estati di fila – si sostanzia nel caos appena descritto. Che dite, essendo voi europei e non americani, il gioco vale la candela? O la candela ci servirà per fare luce, quando Mosca chiuderà i rubinetti?

Perché attenzione. Nel silenzio generale, Parigi sta lavorando a un piano da 50 miliardi di prestiti a zero interessi alla utility energetica statale EDF per la costruzione di sei nuovi reattori nucleari. Come dire, pubblicamente mostra l’austerity, ma nelle segrete stanze lavora a un mega-intervento statale. Capite perché, forse, una crisi del Governo Barnier che porti a un Esecutivo tecnico non è epilogo così sgradito alla volpe dell’Eliseo?

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