Il fatto che la riunione della Bce si sia sostanziata, a parte un simbolico quanto minaccioso riferimento al non utilizzo integrale dell’envelop fatto inserire nel comunicato ufficiale dai falchi del board, in una stanca riproposizione di evidenze e conseguenze sta tutto in questo grafico: alla vigilia del Consiglio direttivo, infatti, l’indice di rischio sistemico della Banca centrale era in fase di approccio ai livelli pre-Covid. Di fatto, le politiche distorsive dei premi di rischio poste in essere attraverso le deroghe del Pepp hanno funzionato, quantomeno a livello di compressione artificiale degli spread. Inutile, quindi, mostrare l’artiglieria pesante rimasta nell’arsenale. Con ogni probabilità, quella dovrà essere sfoderata a marzo. Quando il colossale catenaccio di Stati Uniti e Gran Bretagna sul Covid si svelerà per quello che è stato: una clamorosa strategia per ripartire in contropiede. 



Già, perché la Bce deve fare i conti con un’enorme variabile, quasi una mina vagante: la reale efficacia del vaccino e la sua tempistica nel tramutarsi in boost concreto della ripresa macro. Un’arma a doppio taglio, però. Perché se da un lato ovviamente tutti sperano in uno sviluppo positivo della campagna vaccinale e nel raggiungimento di un’immunità di gregge, dall’altro questo scenario sostanzierebbe di realtà proprio la frasetta fatta inserire da Bundesbank e soci nel comunicato: di fatto, se l’economia dell’eurozona nella sua interezza riparte, lo stimolo va calmierato. Se non ritirato, quantomeno nelle parti non essenziali come il reinvestimento titoli a lungo termine. Tradotto, addio scudo anti-spread. 



Perché se anche la maturity medio del debito acquistato garantisce formalmente trimestri di pace dei sensi sul fronte del finanziamento sul mercato, dall’altro ormai anche i sassi sanno che basta la percezione della fine dello stimolo per innescare prezzatura di rischio travolgenti. Un bel dilemma, quindi: sperare che la pandemia passi oppure arrivare al paradosso di farlo ma con una certa dose di calma e rassegnazione, in nome del bene primario dello spread basso? 

Chi non ha di questi dubbi sono gli americani. E il motivo sta in alcune cifre che un amico che vive e lavora a Chicago mi ha girato l’altro giorno, mentre tutti i giornalisti italiani andavano in estasi per Joe Biden nel giorno dell’insediamento. Riguardano il rapporto fra capitalizzazione totale del mercato azionario e Pil statunitensi nell’atto del giuramento degli ultimi nove presidente. Ford si insediò con un rapporto del 40%, Carter del 47%, Reagan del 43%, Bush senior del 53%, Clinton del 64%, Bush junior del 117%, Obama del 60% e Trump 125%. E il nono? Joe Biden, divenuto inquilino della Casa bianca con una ratio del 190%. Praticamente, se parte una correzione seria del mercato, la sua amministrazione passerà alla storia come quella del nuovo 1929 dopo solo pochi mesi. 



Occorre fare qualcosa. In primis, creare u bel capro espiatorio in caso di crash azionario. Non a caso, nel corso dell’audizione preliminare alla nomina a Segretario al Tesoro, Janet Yellen, non ha trovato nulla di meglio da denunciare se non la natura perversa di Bitcoin e delle criprovalute in fatto di potenziale finanziamento di terrorismo e riciclaggio. Detto fatto, i prezzi sono cominciati a scendere, dato che molti neofiti dell’investimento in cripto si sono spaventati per l’offensiva regolatoria. Di fatto, la medesima strategia usata dalla Cina con Jack Ma e la sua Ant Financial: ma se lo fanno gli americani, va bene. Anzi, è questione di sicurezza nazionale. Ma a far pensare male è la straordinaria contemporaneità, quasi a livello di minuti, fra il giuramento di Joe Biden, uno straordinario mix di sacro e profano fra Bibbia e Lady Gaga e la diramazione da parte dell’Oms di questo documento di linee guida rispettivamente ai test cosiddetti PCR per l’individuazione del Covid-19. Si tratta dei tamponi su proteina C reattiva, quelli finora giudicati più affidabili di tutti. E quelli che, di fatto, al loro aumentare fanno salire anche giocoforza il numero di contagiati, influenzando nemmeno troppo indirettamente le politiche dei governi rispetto a lockdown e misure di controllo e prevenzione del virus nelle varie società. Di fatto, impattando in maniera determinante sull’economia. 

E cosa ammette, di fatto, l’Oms in quel documento, mostrando un timing straordinario rispetto all’avvicendamento alla Casa Bianca? Che quei test, in realtà, producono masse di falsi positivi fra gli asintomatici! Tradotto: et voilà, nel momento in cui come primo atto della sua amministrazione Joe Biden impone l’obbligo di mascherina nei luoghi pubblici per 100 giorni – decisamente più blando di una qualsiasi forma di lockdown -, l’Oms gli viene incontro smentendo mesi e mesi di narrativa sanitaria e di fatto facendo prezzare ai mercati e all’economia un drastico calo del numero di contagiati ufficiali. Nei fatti, il solo arrivato di Joe Biden a Pennsylvania Avenue ha posto fine all’emergenza pandemica per gli Usa! Miracolo! 

E al netto dei dubbi che sorgono in maniera ancora più drastica rispetto alle accuse velate di ritardo da parte di Pfizer nel comunicare dopo il voto alle presidenziali il lancio del vaccino a livello sperimentale, al fine di non offrire un indiretto sostegno a Donald Trump, ecco che mentre l’Europa ancora naviga a vista e, soprattutto, si trova quotidianamente a dover affrontare sempre più gravi ritardi logistici nella ricezione e somministrazione di vaccini, stranamente Statu Uniti e Gran Bretagna corrono come centometristi. La Germania ha appena prolungato il lockdown nazionale fino al 14 febbraio, la Francia addirittura fa filtrare l’indiscrezione di bar, ristoranti e brasserie chiusi fino a Pasqua e l’Italia vede sempre più regioni costrette a bloccare la seconda, fondamentale somministrazione del siero a causa della mancanza di dosi. Il sospetto è che ora l’Oms intenda concludere il proprio giochino strategico in Cina, dove una sua delegazione si trova per investigare sulla genesi della pandemia: quale evidenze salteranno fuori?

Se l’esito della missione sarà negativo, magari con un abbandono prematuro per mancanza di collaborazione o censura tout court da parte delle autorità di Pechino, il dubbio di una strategia pro-Biden rischia di diventare certezza in tempo zero. Ma anche se si arrivasse a una sorta di appeasement, qualcosa potrebbe lasciar intravedere tempi bui per la ripresa economica europea: a quel punto, infatti, sarebbe palese la volontà dell’Oms di non voler scontentare nessuno dei due vasi di ferro, sacrificando volentieri il vaso di coccio europeo. Non a caso, divisosi sulla strategia di somministrazione coordinata del vaccino già il giorno dopo della fine della presidenza di turno tedesca. Al riguardo, poi, può essere interessante quanto denunciato dal National Legal and Policy Center (Nplc) e totalmente ignorato dagli idolatranti media italiani: come mai il Biden Institute dell’Università del Delaware, fondazione facente capo al neo-presidente e ufficialmente impegnata nelle politiche di scolarizzazione, non ha ancora svelato l’identità dei misteriosi donatori cinesi di una somma quantificabile in 22 milioni di dollari dal 2017 in poi, nonostante le promesse in tal senso fatte durante la campagna elettorale? Chi si nasconde di così inconfessabile e confidenziale da richiedere la violazione di una promessa formale, dietro il flusso di denaro transitato negli ultimi tre anni attraverso il Penn Biden Center dell’Università della Pennsylvania e secretato de facto dalla casa madre in Delaware? 

A Wall Street circola una voce: se si trattasse di una società riconducibile alla galassia di Jack Ma e Alibaba, si spiegherebbe la mossa regolatoria di Pechino contro il miliardario. E, soprattutto, la presidenza Biden si aprirebbe sotto ricatto cinese. E poi, come mostra l’organigramma ricostruito sempre da Politico nel suo articolo, nessuno ha niente da ridire sul fatto che tutti i più alti dirigenti e rappresentanti di quella stessa Fondazione, oggi abbiano ricoperto ruoli di prestigio e grande delicatezza nel team di transizione? Un solo esempio: Tony Blinken, neo segretario di Stato, ha lavorato come managing director al Penn Biden Center e, stando a documenti ufficiali, nei soli primi sei mesi del 2019 è stato pagato per questo incarico oltre 80mila dollari. 

Tutto bene, cari adoratori nostrani del normalizzatore Biden? Di fronte a uno scenario simile, davvero pensate che bastino gli acquisti del Pepp a evitare una primavera a incubo all’eurozona? Ecco perché, mi scuserete, oggi avete letto molto poco rispetto alla conferenza stampa di Christine Lagarde.