Quanta virginale e ipocrita commozione per l’esplosione di Beirut. D’altronde, quando qualcosa è noto ma va dissimulato e nascosto, fingere sbalordimento appare la tattica migliore per non dare nell’occhio. E tutti – inteso con questo termine il non troppo ristretto novero di persone che si occupa a vario titolo di geofinanza – sapevano che il Libano era un classico esempio di accident waiting to happen: qualcosa era in arrivo. E state certi che non si fa esplodere mezza capitale di un Paese come viatico di avvertimento in vista della sentenza sul caso Hariri attesa per domani, quasi si volesse telegrafare col botto a chi di dovere che se i tre membri di Hezbollah alla sbarra verranno ritenuti colpevoli, allora l’influenza iraniana sul Paese dovrà terminare da un giorno con l’altro. Ed evitiamo, per favore, anche il facile sillogismo in base al quale l’avvertimento mosso pochi giorni fa da Israele al Governo libanese riguardo la pronta risposta di Tel Aviv in caso di attacco da parte delle milizie sciite debba essere letto come un’implicita assunzione quanto dissumulata di responsabilità: se Israele deve giocare sporco, specialità in cui è maestra, non ricorre a certi mezzucci. E non lascia prove. Quantomeno, non troppo evidenti.



Non ho idea di cosa sia successo, né di chi abbia fatto volare in aria quel deposito di nitrato di ammonio. Certo, viene da chiedersi quale genio abbia lasciato stoccata una quantità di materiale pericoloso di quel genere a ridosso del centro urbano. Ma forse è meglio chiedersi quali edifici siano stati colpiti con certezza dall’onda d’urto. Sparendo del tutto. Chi aveva sede in quei palazzi, ridotti a posacenere? E fra quella cenere, magari, ora giacciono i resti ormai inservibili di documenti che è meglio restino sotto forma di indizio, prima che qualcuno li tramutasse in prova? Chi lo sa, la cenere è cenere, ormai.



Il Libano è soltanto un paradigma. Smettiamola per carità con la retorica del Paese martire e incubatore di possibile convivenza fra fazioni in Medio Oriente: quel lembo di terra è stato per anni e anni, per decenni, la palestra mondiale della destabilizzazione globale. E la sua leadership ne è sempre stata conscia, sfruttandone di volta in volta i benefici accessori. Ma, giova ricordarlo, anche accumulando debiti verso personaggi che difficilmente scordano. Ogni tanto, occorre saldare il conto. Forse, ci troviamo di fronte a uno di quei casi.

La città distrutta? I morti e i feriti? Danni collaterali. Come sempre. Certo, le fazioni in gioco contano. E pesano. Lasciare che l’Iran, attraverso il proxy di Hezbollah, faccia il bello e il cattivo tempo, quando sei “vicino di casa” di Israele, non depone a favore della tua incolumità. Al mondo, esistono polizze di assicurazione sulla vita migliori. E il Libano, al netto della retorica quasi romantica del suo martirio, lo sapeva, come mostra questo grafico: uno dei Paesi al mondo con un sistema bancario a dir poco sproporzionato ed esorbitante rispetto a ogni criterio valutativo macro, dal Pil al numero di abitanti al reddito pro capite. Un Paese che accoglie ancora circa 1 milione di profughi delle varie diaspore dell’area su 5 milioni di abitanti che può vantare un sistema bancario da far impallidire la Svizzera. Opaco ed efficiente come pochi. Il tutto, a fronte di conti pubblici gestiti talmente in maniera criminale e assistenzialista da aver appena fatto default, ricorrendo a studi legali e di consulenza newyorchesi di prim’ordine per trovare un accordo di moratoria con i creditori.



Questo è il Libano martire delle mille fazioni e della speranza di convivenza, in realtà. Una lavatrice di denaro di dubbia provenienza e il punto di snodo di interessi geopolitici per perseguire i quali un atto come quello appena accaduto rientra a pieno nel playbook degli “incidenti” possibili.

Sapete perché mi fa più paura l’ipocrisia generalizzata delle eventuali bombe? Perché fa più morti, in numero assoluto e sul lungo periodo. Vi faccio un esempio. Questa immagine ritrae il numero uno di Tesla, Elon Musk, e un botta e risposta tenutosi il 24 luglio scorso sul suo profilo Twitter.

Tutto è cominciato con un’innocua critica del visionario imprenditore Usa rispetto al nuovo pacchetto di stimolo federale all’esame del Congresso. Musk lo definisce l’ennesimo caso di atto “non nell’interesse principale della gente”. Qualcuno gli risponde così: “Sai cosa non è stato nel miglior interesse della gente? Il fatto che il governo Usa abbia organizzato un golpe contro Evo Morales in Bolivia, affinché tu possa ottenere il loro litio”. Netta e spiazzante nella sua onestà di fondo, la controreplica di Musk: “Faremo colpi di Stato contro chiunque vogliamo! Fattene una ragione”. Faremo chi? È stata Tesla, forse, a organizzare la rivolta dei militari boliviani che lo scorso inverno ha costretto Morales all’esilio, prima in Messico e ora in Argentina? Ovviamente no, per ora Musk si limita a spedire la gente in orbita. Ma quel noi deve far riflettere. Perché fa riferimento a un sistema predatorio che vale per tutti: Usa, Cina, Russia, Israele, Turchia. Qualsiasi soggetto egemone nello scacchiere della geopolitica, opera così. Da sempre. E utilizza le armi della destabilizzazione per un unico scopo: tornaconto economico.

Se non ci credete, leggete Confessioni di un sicario dell’economia di John Perkins, vi aprirà gli occhi con la delicatezza di un pugno di Mike Tyson in pieno viso. Elon Musk dice chiaro e tondo, senza tanti giri di parole – forse perché stupido (come farebbe intendere la sua uscita sugli alieni che hanno costruito le piramidi), forse proprio perché tutt’altro che stupido – quale sia la realtà del mondo post-2001 e la sua priorità assoluta nel perseguimento dell’agenda di egemonia del nuovo ordine mondiale: la privatizzazione del caos globale. Prima distruggo e destabilizzo, poi arrivo con il volto buono del cavaliere bianco a colonizzare. Gli Usa lo hanno sempre fatto in America Latina. E la Cina, come ha conquistato mezza Africa negli ultimi anni? E l’operazione Crimea, a cosa è servita alla Russia di Vladimir Putin, solo per onorare un sentimento di appartenenza ideale e un po’ sovietizzante di quella parte di Ucraina territoriale? E le alleanze variabili di Israele, il suo giocare con gli insediamenti e le alture del Golan, il suo flirtare sottobanco con i nemici attaccati in pubblico, a quale logica risponde a vostro modo di vedere, solo a quella della presunta bipolarità diplomatica dei suoi leader?

Papa Francesco ha parlato, in tempi non sospetti, di una Terza guerra mondiale a pezzi già in atto: aveva ragione, tristemente ragione. E le guerre mondiali, si sa, vivono soprattutto di estenuanti e cruente battaglie in trincea, ma vengono risolte dalle Hiroshima, dalle Dresda, dalle Coventry. Non a caso, il governatore di Beirut ha descritto quanto accaduto come una nuova apocalisse atomica simbolicamente simile a quella occorsa in Giappone il 6 agosto del 1945. Già, la bomba Little Boy fu sganciata su Hiroshima il 6 di agosto, esattamente la data odierna. Coincidenze, ovviamente. Ma fino a un certo punto, perché la destabilizzazione vive di simboli. E di manipolazione.

Ad esempio, il simbolo del progresso verde incarnato da Tesla e dal suo geniale proprietario. Il quale può permettersi il lusso di rivendicare l’attività di sobillazione globale degli Usa a tutela dei propri interessi geo-economici senza che nessuno abbia alcunché da dire, senza che nessuno ne chieda immediatamente il boicottaggio del business. Anzi, le azioni di Tesla volano, sempre più in alto. E non solo fra i grandi investitori, persino la clientela retail che opera su piattaforme on-line come Robinhood si svena e si indebita per acquistare quei titoli che conoscono solo rialzi e che sono pronti a sbarcare allo Standard&Poor’s 500, dopo aver monopolizzato i rallies del Nasdaq.

Come la mettiamo? Come mai un sistema che pare pronto a seguire Greta in capo al mondo per salvare due pinguini e tre foche, accetta senza battere ciglio una tale ammissione di colpevolezza? Forse perché Elon Musk, esattamente come Greta, è apostolo della nuova religione green, quella della riconversione globale e della salvezza dell’umanità per via ecosostenibile? E quanto è sostenibile un golpe? Chiedetelo ai boliviani, ai libanesi, a tutti quei popoli che operano unicamente come inutili pezzi di contorno su una scacchiera.

Come mai piace tanto il green a Wall Street, forse perché è il colore del dollaro? Non staremo fingendo di voltarci dall’altra parte, di fronte alla privatizzazione del caos globale in atto? Non staremo giustificando tutti gli Elon Musk del mondo, puntando il nostro patetico indice da borghesucci con la lacrima facile contro la logica – ormai estinta – del petrodollaro, solo perché inquina e sporca le ali dei gabbiani?

Quanto accaduto a Beirut ha ucciso uomini e donne innocenti, straziati. Ma ha soprattutto colpito un’enorme lavanderia di denaro, una palestra per cavalieri di ventura, un anfratto per anime nere del disordine, prima che carne e sangue di madri e figli. Il mondo è un posto orrendo e pericoloso, in questo momento. Conviene prenderne atto. Altrimenti, ci ritroveremo a pubblicare candele per Beirut su Facebook, senza capire che quel medesimo atto è strumentale al nuovo regime che rende gli Elon Musk e le loro pratiche non solo accettabili ma addirittura auspicabili e benvenute.

La teoria della rana bollita di Noam Chomsky, ormai, non basta più a descrivere quanto sta accadendo. Siamo dentro Matrix. E siamo soltanto all’inizio del viaggio, attenzione a quale pillola sceglierete di ingoiare.