Spero che ora la sciarada sia palese a tutti. Che le mie bizzarre teorie sulle dispute internazionali in atto non siano più trattate come tali (come avvenne con lo stop della Fed al rialzo dei tassi), poiché siamo talmente vicini al punto di svolta che ormai si è abbandonata la dissimulazione e si gioca quasi a carte scoperte. Mi spiego. Vi pare normale, vi pare credibile la minaccia rappresentata da uno scontro commerciale di dimensioni globali e profilo da libri di storia che lunedì veda tutti gli indici mondiali schiantarsi di oltre il 2% e che il giorno dopo benefici, sempre a livello generale e indiscriminato rispetto alle dinamiche macro, di un immediato rimbalzo del gatto morto? Signori, quanto accaduto lunedì con l’annuncio di ritorsione cinese sui dazi ci è stato venduto come l’apocalisse dietro l’angolo, eppure è bastato che Donald Trump dicesse – per l’ennesima volta – che alla fine l’accordo con la Cina si farà e che incontrerà Xi Jinping in tal senso al G20 di Osaka di fine giugno e il mondo intero, novello cane di Pavlov, ha resettato tutto quanto ostentato da Pechino come prova di forza, ripartendo con gli indici in verde.



Signori, non prendiamoci per i fondelli. Per favore. Anche perché, come vi dicevo, ormai sono gli stessi manovratori a svelare il loro percorso di false piste, quasi volessero far capire a tutti quanto la situazione sia delicata. Della serie, lasciateci fare, anche se siamo alle comiche, altrimenti ci schiantiamo contro un muro. Questo è il tweet con cui Donald Trump ha anticipato di una mezz’ora l’apertura di Wall Street martedì scorso: l’ennesimo, sempre più palese richiamo alla Fed affinché tagli i tassi di interesse.



Questa volta, rispetto al passato, utilizzando però proprio l’argomento forte della disputa commerciale con la Cina, la quale sta stimolando e continuerà a stimolare l’economia. Quindi, se la Federal Reserve ne seguirà l’esempio, sarà game over, l’Occidente vincerà sicuramente la guerra contro Pechino. Patetico. A dir poco. Ma la situazione di disperazione da bolla e da sindrome del Re nudo sui mercati è tale che ormai viene recepito e incorporato tutto come fieno in cascina nella battaglia campale e finale per evitare che finisca la festa dei tassi a zero e del denaro facile. È sempre la stessa storia, mettetevelo in testa una volta per tutte: la chiave è soltanto l’abuso e la conseguente assuefazione dei mercati alla liquidità sovrabbondante e praticamente gratis. Ora che il denaro dovrebbe tornare ad avere un minimo di valore e il rischio a essere parte integrante del gioco, tutti piangono. Parafrasando il noto spot, non vogliono smettere di vincere facile. Cieli sempre blu, rialzi continui e quasi garantiti per legge. Facile fare gli investitori così, non vi pare?



Ma se questo è il contesto, attenti ai danni collaterali. Uno dei quali, potremmo essere noi. Perché la polarizzazione dello scontro fra Usa e Cina porta con sé una miopia pericolosa, quella che mette fuori fuoco l’Europa come bersaglio ed epicentro. Errore da non commettere. Alla luce di questo, mi chiedo: cosa vuole ottenere il ministro Salvini agitando il drappo rosso dell’addio definitivo alle regole europee davanti al toro narcotizzato ma pur sempre pericoloso dello spread? Signori, se non ci fosse lo schermo della Bce saremmo già oltre 400. E la sparata di martedì del ministro dell’Interno, stante anche la tensione da clima elettorale, ci sarebbe costata ben oltre i 10 punti base presi a fine giornata: saremmo tornati alla vecchia abitudine dei 30-40 punti a botta. Con o senza Draghi, perché in determinate condizioni l’assalto una tantum non riesce a fermarlo nemmeno la Bce, ragionando in base a logiche di reinvestimento e redemptions con operazioni pressoché fisse sul mercato. Insomma, ha il bazooka, ma il nemico sa quando lo usa. E con tempi di reazione ovviamente più rilassati, essendo formalmente finito il tempo del Qe.

Matteo Salvini può piacere o non piacere, ha palesi problemi di ego che spesso ne annebbiano il giudizio, ma non è affatto uno sprovveduto politico. Anzi, fa del calcolo la sua stella polare. Da sempre. Perché allora quel richiamo allo sforamento dei parametri come un “dovere”, dopo mesi di relativa pace armata con Bruxelles? E proprio a due settimane dal voto europeo, quando ogni nervo appare più sensibile e scoperto? E poi, la sua mossa va forse messa in relazione alla presenza, poche ore dopo la sua sortita sui conti pubblici, del sottosegretario Giancarlo Giorgetti a Porta a porta, dove ha detto chiaramente che se dopo il 26 maggio si proseguirà con questo grado di litigiosità permanente, il Governo non potrà andare avanti?

Il leader leghista si prepara all’incidente controllato? Anzi, sta preparando l’incidente controllato? Vuole forse uscire di scena, indossando i panni di chi non accetta più certi compromessi a scapito del Paese, prima che l’inganno delle politiche economiche finora messe in campo sia svelato dalla realtà? Non mi stupirebbe, ripeto. Ma altresì ripeto che questa volta si tratta davvero di un gioco pericoloso, per quanto possa contare su sponde esterne nel vecchio centrodestra. Se infatti esiste al mondo una conseguenza economica diretta e reale dello scontro fra Usa e Cina, questa si trova in Europa.

Ieri è giunta la notizia che il Pil tedesco del primo trimestre è cresciuto più delle attese, +0,4%, sospinto da consumi interni (udite udite, in Germania!) e boom delle costruzioni. Insomma, Berlino ha messo mano al surplus per fare spesa e garantirsi un maquillage ai conti pubblici. Pessimo segnale. Non macro, per carità. Ma del grado di pericolosità della contingenza che stiamo vivendo. In Germania, infatti, hanno implicitamente esposto la bandiera rossa del pericolo sul pennone del Bundestag, signori. In compenso, in questa messe informe di distorsione mediatica e di dati, ecco che qualcosa di prezzato in base al rischio percepito è saltato fuori: non appena comunicata la buona notizia di un Pil non a zero o sotto zero, a Berlino hanno visto il rendimento del Bund a 10 anni precipitare a -0,08%. Ecco spiegato il nostro spread in allargamento, nonostante la Bce abbia concluso la scorsa settimana con reinvestimenti superiori alle redemptions per poco più di un miliardo di euro, quindi vedendo risalire il dato generale dello stato patrimoniale. Per questo dico che il ministro Salvini sta maneggiando un panetto di Semtex come se fosse la plastilina della figlia.

Perché signori, il dato che conta sulla Germania non è quello del Pil del primo trimestre, artificialmente gonfiato da dati una tantum che non sono strutturalmente conciliabili con nessun programma politico di legislatura e post-emergenza elettorale, bensì quello rappresentato da questi grafici. I quali ci mostrano come dissimulare è sempre importante, ma che occorre anche trovare delle soluzioni di lungo termine al problema, stante il suo perdurare.

Quello che vedete rappresentato è l’indice Zew relativo alla fiducia delle imprese tedesche, il quale a maggio ha fatto registrare inaspettatamente il primo indebolimento dallo scorso ottobre, il mese dei primi crolli azionari e della prima grande paura di recessione globale alle porte. E non è stata una contrazione da poco: a fronte di attese degli analisti di un +5%, è stato segnato invece un -2,1%. Insomma, deterioramento netto delle prospettive a breve. E in base a dati di pessimismo degli imprenditori registrati prima dello showdown tutto mediatico fra Cina e Usa dell’ultima settimana. È strutturale quella percezione di debolezza, non strettamente legata a una congiuntura transitoria di breve periodo. Il secondo grafico, invece, ci mostra il dato della capitalizzazione di mercato del gigante borsistico tedesco, la farmaceutica Bayer, dopo l’ennesima mazzata giunta da un tribunale Usa rispetto al potenziale cancerogeno di un diserbante della controllata Monsanto, Il RoundUp. Siamo ai minimi dal 2012 e a un dato che va oltre il dimezzamento netto dai massimi pre-acquisizione del gigante dell’Ogm statunitense dell’ottobre 2015. All’epoca capitalizzava 120,5 miliardi, oggi 51,4. Al netto di quanto speso per quell’operazione, costi che andranno comunque a ricadere negli anni venturi, per quanto già messi a bilancio ma su previsioni di utili e profitti ben differenti da quelle attuali.

Ora, poi, il grande timore. Il secondo architrave dell’economia e della finanza tedesca, l’automobile, potrebbe divenire vittima e preda delle attenzione da dazi di Donald Trump, se la disputa politica interna Usa necessitasse di un’ulteriore escalation di propaganda per oscurare, ad esempio, il flop post-Ipo di Uber e il conseguente rischio di disvelamento della mega-bolla del comparto tech, in perfetto stile bolla del 2000. Terza vittima, poi, il sistema bancario. Già fiaccato nei profitti dai tassi di deposito negativi della Bce e ora nel mirino della speculazione, dopo l’addio al piano di fusione fra Deutsche Bank e Commerzbank e il conseguente turbinio di voci e rumors (al riguardo, chiedere referenze a Unicredit e al tonfo di martedì scorso).

Attenzione, al netto del dato del Pil di ieri, la Germania è quanto mai fragile economicamente, debole politicamente e sotto attacco geostrategico degli Usa per la questione iraniana e non solo, basti vedere lo sgarbo dell’annullamento all’ultimo momento dell’incontro fra Mike Pompeo e Angela Merkel della scorsa settimana. Ma per quanto nel mirino, la Germania è e resta il benchmark dell’Ue: la si attacca, ma, poi, raggiunto il suo indebolimento, ci si tratta. Noi no, noi a oggi siamo ancora succursale del potere in Europa. Quelli che potrebbero davvero farsi male. O, come spesso è già accaduto, fungere da alibi e da capro espiatorio.

Non so cosa abbia in mente il ministro Matteo Salvini, ma è davvero pericoloso. Spero che sappia cosa sta facendo. E che abbia le spalle ben coperte.