La vecchia regola di Alan Greenspan non perde mai di attualità: quando la situazione si fa davvero seria, il dovere di un banchiere centrale è quello di mentire. Mario Draghi lo ha fatto in parte. E non perché ormai sia diventato un politico e abbia abbandonato la guida della Bce, bensì perché ha giocato con le parole come un incantatore di serpenti e sfruttato al massimo l’onda emotiva delle mezze riaperture annunciate per il 26 aprile. Un maestro, quantomeno stando ai titoli e ai servizi dei telegiornali.
Praticamente, fotocopie. E focalizzati soltanto su due punti: il ritorno dell’operatività all’aperto di bar e ristoranti e il siluro a Giorgia Meloni rispetto al futuro del ministro Speranza, difeso pubblicamente dal Primo ministro in persona. La leader di Fratelli d’Italia è appena incorsa nella prima, clamorosa cantonata politica dopo mesi e mesi di intuizioni vincenti. E temo che a farla cadere in errore sia stata un’apertura strategica e falsa come giuda dell’alleato Matteo Salvini, poi prontamente chiamatosi fuori per lasciare con il cerino in mano la sempre più rampante (e pericolosa) partner di centrodestra.
Cos’ha detto, in realtà, Mario Draghi al Paese? Primo, scordatevi di andare a votare nel 2022. E, forse, persino nel 2023, naturale scadenza di legislatura dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Perché quando l’intoccabile inquilino di palazzo Chigi dichiara che l’entità dello scostamento di Bilancio è di 40 miliardi e il percorso di rientro del deficit solo nel 2025 vedrà il 3%, equivale a dire che quella stagione sarà coperta da lui. O, se per caso traslocasse al Quirinale, a qualcuno di sua diretta fiducia. Certamente, non lascerebbe l’arbitrio di un percorso di riforme e spending review simile in mano all’arbitrio dell’elettorato. Il quale, sondaggi alla mano, potrebbe mandare al potere un centrodestra che oltre all’intransigenza di Fratelli d’Italia e alla sua ricetta sovranista porterebbe in dote una Lega ancora in bilico fra Giorgetti e Borghi e una Forza Italia fresca di richiesta di scostamenti automatici mensili da 20 miliardi, fino alla fine della pandemia. Tradotto, il Venezuela. O l’Argentina, se preferite.
E non pensiate che la politica possa permettersi di alzare troppo la cresta. Primo, perché lo spread lavora a favore di Mario Draghi, visto che ogni scossone interno alla maggioranza si tradurrebbe immediatamente in titoli a nove colonne sul ritorno del fantasma del debito: nessuno, se dotato di un minimo di cervello, vorrebbe essere additato della responsabilità al riguardo. Ma la cosa più drammatica detta da Mario Draghi e bellamente ignorata dalla stampa autorevole nelle sue analisi è il percorso di lacrime e sangue che ci aspetta da qui al 2025: con una ratio deficit/Pil superiore all’11%, avete idea cosa occorra mettere in campo a livello di scelte politiche per tornare sotto il 3% in meno di quattro anni? Non a caso, il Premier ha addolcito la pillola, giocando il fattore Rimini: «È una scommessa sulla crescita: se sarà quella che ci attendiamo da questi provvedimenti, questa scommessa la vinciamo senza pensare neanche a una manovra correttiva… È una scommessa sul debito buono. Non è più una questione di fare debito o no, noi faremo debito, punto. È che ora deve essere investito bene, gli investimenti sono stati ben individuati e occorre siano ben progettati e attuati».
E se invece, come sempre più centri studi stanno certificando, la crescita non riuscirà affatto a operare da moltiplicatore e quindi agente di compressione del debito? Manovra correttiva. Ma di quelle monstre, visto l’impegno che il Primo ministro si è preso pubblicamente. Ovvero, nei confronti del’Europa, non certo di noi o dei partiti che ne reggono la maggioranza. Volete un’immagine per capire come siamo messi? Eccola: ora, pur facendo ricorso a tutta la fantasia e l’ottimismo, quanto debito – pur buono – si potrà ancora fare, prima che qualcuno cominci a porre delle domande, sotto forma di forzata richiesta di aumento del premio di rischio sul titoli di Stato?
Ed eccoci alla questione reale. Primo, perché proprio poche ore prima della conferenza stampa di Mario Draghi, l’agenzia di rating Fitch ha reso noto come – a suo avviso – l’Italia avrà bisogno almeno di un decennio per tornare a una ratio debito/Pil pre-pandemica, ovvero un già poco confortante 135%. Secondo, ce lo mostra questo grafico, il quale mostra il risultato del sondaggio compiuto da Bloomberg presso un panel di economisti fra il 9 e il 15 aprile scorso: la stragrande maggioranza ritiene che la Bce rallenterà gli acquisti di bond già a partire dal mese di luglio e che l’intero programma Pepp terminerà del tutto nel marzo 2022. Tradotto, addio utilizzo dell’envelop, pedissequa road map dettata dalla Bundesbank e dai Paesi del Nord e schermo anti-spread che d’ora in poi si baserà unicamente sull’effetto placebo del reinvestimento e sulla credibilità d’azione proprio di Mario Draghi: capito perché dico che nessun partito della coalizione potrà permettersi alzate d’ingegno, salvo far saltare anticipatamente il banco?
La ragione per cui gli economisti sono certi di questo inizio di taper? Ciò che vi dico da settimane: la campagna vaccinale che sta operando da boost dell’ottimismo per la ripresa. Ma attenzione, ci sono un paio di variabili, al netto del fatto che la medesima tesi sia stata pubblicamente confermata dal governatore della Banque de France e membro del board Bce, François Villeroy de Galhau. Primo, soltanto noi e la Spagna, ovvero l’elite del Club Med, stiamo timidamente riaprendo nell’eurozona. La Francia è blindata e la Germania sta per blindarsi di nuovo, mentre addirittura i Paesi scandinavi stanno abbandonando il loro approccio aperturista. Sintomo che è la disperazione economica a guidare le decisioni politiche di Roma e Madrid e non la reale condizione sanitaria. Pessimo segnale, perché si rischia di richiudere tutto a metà maggio. E vedere davvero lo spread volare, nonostante il backstop Bce. Secondo, paradossalmente dobbiamo tifare Covid Ovvero, aggrapparci al peggioramento della situazione proprio in Francia e Germania, al fine di spazzare via l’effetto boost del vaccino e riportare la Bce su binari più consoni alle nostre stringenti necessità di tutela assoluta (quindi, envelop incluso), quantomeno fino alla prossima primavera.
Ve l’ho detto l’altro giorno: per evitare l’implosione del sistema – e dell’eurozona, in primis – occorre trasformare la pandemia in endemia. Ora, prepariamoci a sei giorni di attesa stringente: il 22 aprile si riunisce il Consiglio direttivo della Bce e allora capiremo quanto c’era di strategico e auto-eliminante nel sondaggio di Bloomberg (dettato ciò dalla stessa Bce per creare un po’ di panico e fornire un bell’alibi in vista di giovedì) e quanto di reale nella volontà dei Paesi rigoristi-frugali di cominciare a dividere nettamente in due il gruppone dei Paesi membri, esattamente in base alle poco gradevoli logiche del 2011. Comunque sia e vada, Mario Draghi ha prefigurato un futuro prossimo che ha soltanto due epiloghi: o lacrime e sangue con un Governo sostenuto giocoforza da tutti o ristrutturazione forzata, concordata con una Troika ridotta e formata da Commissione Ue e Bce, senza Fmi. Insomma, il futuro è già scritto. Quantomeno per chi pensava davvero che l’uomo del Whatever it takes accettasse una gatta da pelare simile soltanto per eliminare le primule e organizzare la campagna vaccinale in base a logiche militari.