“La gabbia dell’euro”, ricordate questa formuletta retorica. Perché temo che, avendo finito i riferimenti più efficaci e di stringente attualità politica, i cosiddetti sovranisti torneranno ai vecchi amori in vista delle elezioni europee del 26 maggio. Ormai ci siamo, il filo di lana dell’appuntamento più importante è dietro l’angolo, manca solo il rush finale. Quindi, ogni castroneria è lecita, soprattutto per sviare l’attenzione dalla beghe interne. Perché se è vero che armonizzare in un’unica moneta economie differenti e spesso agli antipodi come quella tedesca e quella greca è ontologicamente operazione improba e oggettivamente messa in atto con tempi e modi sbagliati, altrettanto vero è che di fronte al mondo attuale e a quello che si sta preparando dietro le quinte, pensare di risolvere i propri problemi – ovvero restare concorrenziali su un mercato che ti vede opposto a Usa, Cina, Russia ed emergenti – con la sola arma della svalutazione della tua monetina sovrana, appare come lo svuotamento dell’Oceano tramite secchiello. Uno può anche divertirsi a farlo, per carità ma appare quantomeno criminale volerlo imporre a tutti come strategia efficace di sopravvivenza. E, magari, di prosperità, di magnifiche sorti e progressive.



Negli ultimi giorni, tre esempi sono qui a ricordarcelo. Prendiamo la Turchia, per prima. La quale, come vi ho raccontato, ha dato vita a una difesa da immaginaria linea del Piave della propria valuta sovrana nelle settimane precedenti al voto amministrativo, ottenendo come unico risultato un drenaggio di riserve estere devastante. Ma non basta, signori. Perché se la situazione pareva brutta per Ankara, ora è peggiorata. Questo grafico ci mostra come nella settimana terminata il 19 aprile scorso, le riserve estere nette turche siano calate di quasi 2 miliardi di dollari, passando da 28,7 a 26,9 miliardi di controvalore. Non male in sette giorni, roba che la nostra strenua difesa della lira nel 1992 appare un gioco da dilettanti. Ma c’è di peggio, come vi dicevo. Molto, molto peggio.



La linea importante del grafico, infatti, è quella di colore fucsia, ovvero quella relativa alle riserve estere reali, escludendo quindi gli swaps valutari utilizzati dalla Banca centrale turca per gonfiare artificialmente l’ammontare delle proprie riserve e per aumentare la percezione esterna della propria forza di resistenza agli shock. Un trucco che le banche cinesi usano da sempre e che rappresenta uno degli ultimi livelli di intervento prima del panico ufficiale. Anche perché, con questi trucchi contabili alla Fausto Tonna, puoi fregare il cittadino comune o il direttore di tg, non chi investe per lavoro. Il quale sa quali indicatori reali guardare.



Dopo essere calate dal massimo relativo di 34 miliardi di dollari ai 25 di fine marzo, all’inizio di aprile le riserve turche erano infatti magicamente risalite di controvalore, raggiungendo quota 28,1 miliardi. Accipicchia, che fenomeni questi turchi! E le autorità monetarie hanno decisamente operato in maniera che tradisce disperazione, visto che l’utilizzo di swaps è passato da un controvalore virtualmente pari a zero ai 13 miliardi di dollari dello scorso 8 aprile: per mettere in prospettiva la magnitudo dell’escalation, basti pensare che fra il 1 gennaio e il 25 marzo quel tipo di finanziamento non aveva mai ecceduto i 500 milioni di dollari, stando a dati ufficiali della stessa Banca centrale turca.

Scorporando il dato, ecco la realtà: per tutto il mese di aprile gli assets esteri netti sono rimasti sotto il livello di guardia degli 11,5 miliardi, un calo netto dai 28,7 miliardi di inizio marzo. In altre parole, la Turchia starebbe mistificando il valore delle proprie riserve monetarie del 100% solo per mostrare al mondo la propria formale difesa della lira, quando invece starebbe limitandosi a operare swaps a breve termine con le banche commerciali del Paese sugli stessi dollari che la popolazione locale ha convertito, proprio per fuggire dalla valuta turca! Gioie del sovranismo monetario e della furbizia che esso consente di utilizzare, direbbero i geni che denunciano la natura da gabbia – nemmeno troppo dorata – dell’euro. A oggi, trucchetti da swaps a parte, le riserve estere nette su cui Ankara può fare affidamento sono di 14,9 miliardi di dollari, ben al di sotto della soglia di sicurezza non solo percepita ma reale. E sapete a quanto ammontano le scadenze debitorie denominate in dollari che l’economia del Paese dovrà affrontare nei prossimi 12 mesi? Circa 118 miliardi.

Game over, signori. Non a caso, il 25 aprile scorso, la lira turca è letteralmente crollata dopo che la Banca centrale di Ankara, al termine del suo board, ha varcato il Rubicone sì ma per mostrare, sventolandola come se non ci fosse un domani, bandiera bianca. Dopo mesi e mesi di comunicati finali in fotocopia, ecco che da quello diffuso pochi giorni fa è sparita la formuletta magica di difesa autarchica, nazionalista e orgogliosa della propria monetina: l’ulteriore contrazione delle politiche monetarie, se richiesta, non c’è più. Nessun riferimento. Come dire, ci toccherà non solo stampare ma farlo anche con il ciclostile in cantina, stile Banda degli onesti.

Ecco il parere al riguardo di Win Thin, capo della strategia monetaria alla Brown Brothers Harriman: “Quanto accaduto è molto peggio delle attese e supporta in pieno la percezione esterna che la politica monetaria turca sia deragliata. Segnale che ogni possibile ortodossia da parte della Banca centrale è stata distrutta, visto che nessun regolatore sano di mente opterebbe per un atteggiamento da colomba in una situazione come quella attuale turca”. Una prece. Al Fmi stanno già contando le cambiali da far firmare a Recep Erdogan, come Fantozzi per pagare l’hotel a 5 stelle a Capri.

Ma le gioie del sovranismo monetario mica si esauriscono in Turchia, fanno il giro del mondo. Prendiamo l’Argentina, ad esempio, Paese il cui godere di una valuta sovrana di fronte alle sfide dell’economia globalizzata e finanziarizzata sta davvero garantendo ottimi frutti. Non solo il mercato già oggi prezza le possibilità di un altro default dell’Argentina a 5 anni già oltre il 60%, attraverso i credit default swaps che vanno via come il pane, ma, soprattutto, il bond a 100 anni emesso nel 2017 e che doveva rappresentare l’ipoteca del governo Macri su un futuro prospero e di conti finalmente in ordine, oggi garantisce un bel 10,3% di rendimento, il vero paradiso dei gonzi (occhio a cosa vi offrirà la vostra banca, spacciandovela per “occasione del secolo”, nelle prossime settimane). Non male, signori, che dite?! E attenzione, perché questo è soltanto l’assaggio di una campagna per le elezioni generali, compresa la rielezione o meno di Mauricio Macri alla guida del Paese, che durerà ancora parecchio, visto che dall’altra parte dell’Oceano le urne si apriranno il 27 ottobre prossimo. Se questo è l’aperitivo, penso che qualcuno dalle parti della Casa Rosada sia già ubriaco.

E attenzione, perché in questo caso la situazione appare in prospettiva ancora più grave di quella turca, poiché a differenza di Ankara, gli argentini hanno già stipulato un patto con il Fmi per un prestito record da oltre 50 miliardi di dollari. Insomma, anche la cosiddetta last resort è andata. Poiché ogni eventuale rinegoziazione al rialzo per peggioramento delle dinamiche macro sarebbe salutata dai mercati con un vero e proprio massacro valutario e una pressione insostenibile su titoli di Stato e cds. Giova ricordare che nel tentativo di sostenere la propria valuta, oltretutto in piena tempesta inflazionistica (tasso annuo registrato a marzo al 54,7%, tanto per capirci), l’Argentina sta già oggi vendendo circa 60 milioni di dollari al giorno sul mercato. Denaro ottenuto, non proprio a condizioni da amico, dal Fondo monetario.

Duro il commento al riguardo di Edward Glossop di Capital Economics: “La decisione della Banca centrale di mantenere invariata la banda di oscillazione fa il paio con quella di annunciare il congelamento dei prezzi di alcune decine di prodotti, di fatto un controllo diretto del governo. E ci dice una cosa sola: i politici argentini sono nel panico”. Ma hanno la loro sovranissima moneta, però! Cosa volete che sia il fatto che certe politiche, oltre che una struttura da oligarchia sociale dei soliti noti degna delle caste indiane, ti stiano portando a grandi passi verso il terzo default in meno di 20 anni! Direte giustamente voi, roba da Paesi emergenti, nazioni con liabilities strutturali tali da essere soggette a ogni stormir di fronda.

Proprio sicuri? Al netto che la vulgata sovranista vorrebbe proprio nel controllo della moneta l’arma difensiva principale per soggetti con tali prerogative macro, ecco che l’esempio più eclatante di capitolazione al gioco dell’espansione senza limiti e senza senso ci arriva dall’avanguardistica e sviluppatissima Svezia, la cui divisa – la sovranissima corona – sul finire della scorsa settimana si è letteralmente sfracellata al suolo, dopo che la mitica Riksbank, la Banca centrale, ha gettato la spugna. Magari in maniera meno eclatante e più formalmente dignitosa di quanto fatto da Ankara, ma, certamente con conseguenze – politiche, innanzitutto – non meno importanti. Era sempre il 25 aprile, data da segnare sui calendari economici mondiali, mentre qui ancora giocavamo ai guelfi e ghibellini post-1945. Poche ore dopo che il board della Bank of Japan aveva per l’ennesima volta deliziato i mercati con la sua messa all’asta mensile della residua dignità rimasta, “aggiustando” per la 1739ma volta la sua forward guidance e spostando la fine della politica dei tassi ultra-bassi alla primavera del 2020 (il taper doveva iniziare nel mese di aprile di quest’anno, insomma doveva già essere partito, stando alle decisioni di fine 2018), ecco che l’Istituto centrale svedese, forse colto da crisi di gelosia keynesiana, ribatteva colpo su colpo.

E come? Primo, ha annunciato che il suo tasso di interesse benchmark resterà al minimo di -0,25% per “un periodo significativamente più lungo di quando indicato nelle previsioni del mese di febbraio scorso”. Insomma, in meno di due mesi, capitolazione numero uno. Complimenti ai tecnici svedesi, hanno un futuro al Fmi assicurato. Secondo e più importante, almeno a livello di comunicazione pop, quanto ci mostra questo grafico: non solo gli amici finnici resteranno sotto zero con il costo del denaro sine die, ma dal prossimo luglio e fino al dicembre 2020 compreranno direttamente assets sul mercato per un controvalore totale di 45 miliardi di corone, circa 4,3 miliardi di dollari. Qe infinito e strutturale!

E signori, quell’ammontare può sembrare argent de poche rispetto al delirio monetario di acquisti di Fed, Bce e Bank of Japan, ma va messo in prospettiva rispetto all’economia svedese. E, soprattutto, quel controvalore equivale a circa metà dei pagamenti relativi a coupon e capitale derivanti dal portafoglio obbligazionario della Riksbank: alla faccia del reinvestimento, qui siamo alla ricerca delle scialuppe sul Titanic! Attenzione, non significa che la Svezia sia alle soglie del default, che Stoccolma stia per gemellarsi con Ankara e Buenos Aires nella percezione die mitologici mercati. Però significa che la trappola della monetizzazione del debito sta diventando, giorno dopo giorno, trimestre dopo trimestre, un labirinto da cui la Riksbank non sa più come uscire. Poiché una sterzata nella politica monetaria, quella sì, significherebbe inviare uno scossone devastante all’economia, in primis al mercato immobiliare perennemente in bolla da quelle parti. Il tutto in un quadro macro globale che se non recessivo, possiamo tranquillamente definire di netto rallentamento sincronizzato.

E qui arriva il bello. Anzi, l’orrido del sovranismo monetario in tempo di globalizzazione imperante. Dopo l’annuncio della Riksbank, infatti, la corona svedese è calata fino all’1,2% intraday sull’euro, registrando la peggior performance giornaliera dal novembre 2017, mentre il 9,56 di cross raggiunto nei confronti del dollaro parla del minimo addirittura dal 2003 contro il biglietto verde. Il motivo? Semplice, perché essendo dipendente dall’export per circa la metà della sua crescita economica, la Svezia ha cominciato a patire in maniera netta la spirale di debolezza che ha colpito l’eurozona. E con la Bce costretta a quel punto a rimangiarsi pressoché tutte le promesse di normalizzazione della politica monetaria fatte non più tardi dello scorso dicembre, in primis estendendo a tutto il 2019 il periodo di tassi inchiodati ai minimi, la Riksbank non ha potuto che accordarsi. Perché in un mondo dove la Fed ha dovuto bloccare il processo di quantitative tightnening quasi dalla sera alla mattina, tipica cartina di tornasole di un’economia che scoppia di salute (come ci ha detto l’ultimo, farsesco dato del Pil, il quale mette un pochino in contraddizione la presunta realtà – tutta basata su voci una tantum e con quelle macro ai minimi – con la continua richiesta della Casa Bianca alla Fed di tagliare addirittura i tassi) e la Bce ha dovuto ipotecare costo del denaro ai minimi per tutto l’anno e mettere in cantiere aste di rifinanziamento bancario, tu con la tua monetina da Monopoli non puoi che accodarti alla loro scia.

Ecco il succo del sovranismo monetario in un mondo globale: ti fai imporre comunque la politica dei tassi dai soggetti più forti, oltretutto non godendo dello scudo di una valuta più resistente agli shock esterni. Un affarone, cosa ne dite? E attenzione, perché vi lascio con la perla finale su cui riflettere attentamente. Questa, ovvero l’ammissione del vice-presidente della Bce, Luis de Guindos, nel corso di un convegno a New York sempre il 25 aprile scorso, del fatto che “se necessario”, l’Eurotower ripartirà con gli acquisti obbligazionari. Con il Qe, insomma. A pieno titolo e regime. Solo a ottobre-novembre dell’anno scorso, chiunque avesse osato avanzare un’ipotesi del genere, magari accoppiata a quella di una Fed che bloccasse il programma di normalizzazione della politica monetaria, sarebbe stato additato pubblicamente come un pazzo, visionario, complottista, incompetente, non autorevole. Come è accaduto al sottoscritto. Tocca avere tanta pazienza e spalle larghe per stare al mondo, fidatevi.