Dopo tanti anni insieme, ho la presunzione di sperare che una delle dinamiche base con cui i mercati e le economie reagiscono alle scelte di politica monetaria sia chiara: le mosse della Pboc cinese anticipano gli andamenti macro Usa di 5-6 mesi, i quali a loro volta operano da spoiler di quelli europei con il medesimo arco temporale di distacco. Questo a livello generale e storicamente accettato, parlando di impulso creditizio. Ma con l’avvento del Qe perenne, quei tempi relativi ai cicli si sono dimezzati. Quindi, i movimenti anticipatori sono di circa 3 mesi.
Ora, accantoniamo per un attimo la Cina. E concentriamoci sulle due sponde dell’Atlantico. Bene, mai come elle ultime 72 ore, l’Europa è stata terminale dipendente della Fed. Certo, la Bce ieri ha alzato i tassi di altri 25 punti base, portando quello benchmark al 3,75% e lasciando intendere che il percorso di contrazione del costo del denaro non si ancora terminato. Poiché l’inflazione appare ancora troppo alta e troppo nel lungo periodo. Nulla che il mercato già non prezzasse. Per intero. Così come, di fatto, tutti si attendevano i 25 punti base di aumento da parte della Fed mercoledì sera. Ma al netto delle scelte e dei comunicati ufficiali, c’è qualcosa sotto il pelo dell’acqua. Per l’esattezza, questo.
Prendete la prima immagine: cosa ci dice? Che, probabilmente, Jerome Powell avrebbe dovuto disattendere le aspettative del mercato e compiere il policy error di fermare subito il ciclo rialzista. Già da mercoledì. Certo, il mercato avrebbe quasi certamente sentito odore di panico. Ma come per quello del napalm al mattino in Apocalypse now, forse col passare delle ore se lo sarebbe fatto piacere. Certamente più della certezza che, volenti o meno, la crisi bancaria non è affatto risolta. Né tantomeno circoscritta a Svb e Frb. Quello rappresentato nel grafico è infatti l’andamento del titolo della banca californiana PacWest – 28 miliardi in depositi e 44 miliardi in assets – nel corso delle contrattazioni after-hours e after-Powell: -60%. Il tutto dopo il -28% con cui martedì aveva salutato il salvataggio di Frb da parte di JP Morgan. Ma, cosa più importante e sintomatica, dopo il +17% segnato solo la scorsa settimana a seguito del comunicato con cui il management ragguagliava il mercato sul ritorno dei depositi come rondini a primavera, stabilizzatisi a marzo e tornati poi a salire di 700 milioni sul finire del trimestre.
Il problema? Duplice. Da un lato, il report di Bloomberg in base al quale PacWest starebbe invece già valutando una serie di opzioni strategiche, fra cui la vendita. Ma, sottolineava l’agenzia, un potenziale acquirente dovrebbe mettere in conto un grossa perdita legata alla svalutazione di molti prestiti in atto. Tradotto, addio ex ante alla “soluzione di mercato” e benvenuta nuova svendita dopo un default più o meno controllato dalla Fdic. Stile Frb.
Secondo, al netto dei comunicati trionfalistici, il mercato può bersi tutte le panzane del mondo, ma se una situazione appare già delicata a livello di depositi con i tassi al 4,75%, difficilmente potrà migliorare magicamente con gli stessi al 5%. Magari al 5,25% vedremo tornare a casa i clienti come tanti Lassie? Peccato, apparentemente la Fed ha finito il suo lavoro e ora va in pausa. Anche perché mentre PacWest crollava del 60%, Western Alliance segnava -30% e il Regional Banks Index nel suo insieme toccava i minimi da ottobre 2020.
Ed eccoci al secondo grafico, il quale mostra invece l’andamento nel pre-market di ieri di First Horizon, altra banca locale statunitense, dopo che la canadese Dominion Bank ha annunciato lo stop a ogni trattativa relativa all’acquisto dell’istituto di Memphis. Un rotondo -52% prima ancora che suonasse la campanella di Wall Street. E in perfetta contemporanea con l’ennesima, inutile conferenza stampa di Christine Lagarde.
Attenzione, insomma, a quello che potremmo definire effetto Arma letale, nome che ho mutuato dall’omonimo film e dalla sua scena più iconica. Piaccia o meno ammetterlo, il sistema oggi è infatti un enorme Danny Glover seduto su un WC collegato a una bomba a orologeria. Dare per scontato che tutto andrà bene, esattamente come accadde nel film, può tenere alto il morale. Ma non garantisce il lieto fine. E la storia di queste ore ci dimostra come i comunicati trionfanti di soli sette giorni prima possano tramutarsi in carta straccia, appena il dito meno timido del gruppo decide che è il caso di vendere per primo. E schiaccia sell. Poi, la palla di neve diventa valanga. Tanto che nel silenzio dell’ottimismo e della narrativa in base alla quale la crisi bancaria Usa è risolta e il sistema resiliente, alcune voci sentono il bisogno di parlare. Quasi immedesimandosi nel bambino che denuncia la nudità del Re. Quella di Amit Seru è una di queste.
Chi è costui? Ordinario di diritto bancario alla Stanford University. Istituzione che, a livello di studi finanziari, è seconda solo alla Wharton School della Penn University. E cosa ha dichiarato, prontamente ripreso da Associated Press? Quasi la metà della 4.800 banche statunitensi sta già bruciando i suoi cuscinetti di capitale. Potrebbero anche non dover operare il mark-to-market delle loro perdite come invece richiesto dalle regole di accountability federali, ma questo non le rende certo solventi. Qualcuno sconterà quelle perdite. E ancora: Quanto sta accadendo è sinistro. Centinaia di banche sono letteralmente underwater negli Usa. E per favore, evitiamo di imporci la narrativa in base alla quale questa situazione riguarda solo Silicon Valley Bank o First Republic Bank. Una grande parte del sistema bancario statunitense è potenzialmente insolvente.
Cassandra? Guru per scorrerie contrarian? Forse. Ma attenti a dare tutto per scontato, un effetto Arma letale potrebbe essere dietro l’angolo sotto forma di contagio di più ampio spettro d’azione. E capace, magari stimolato in fase terminale dall’ultimi ritocco della Bce e dall’annuncio di altri rialzi, di varcare del tutto l’Atlantico, dopo lo spoiler di Credit Suisse-UBS. Il tremore di mercato che congela l’interbancario dalla sera alla mattina sta per tornare? Ecco, l’unico proxy che la Bce potrebbe offrirci da oggi è quello necessario a capire quanto potenzialmente la sindrome bancaria americana sia circoscritta o abbia già varcato silenziosamente i confini. Come un virus. Per adesso, la strategia della ricerca parossistica del riflettore per evitare di cadere nel cono d’ombra pare aver funzionato. Ma da domani in poi, basteranno i comunicati a effetto?
Perché dico questo? Tornando nel piccolo mondo antico del nostro Paese per un attimo, perché ad esempio un soggetto che solo quattro settimane fa ha sentito il bisogno di scrivere sul muro come non avrebbe seguito il cattivo esempio di Santander sul bond AT1, ora sventola utili da record e trascina l’intero listino nella giornata di mercoledì? Questa sovraesposizione di ottimismo – collettiva, sia chiaro – nel mostrare urbi et orbi certificati di sana e robusta costituzione, è voglia di tranquillizzare o necessità di rifulgere nel maquillage per evitare di cadere nel cono d’ombra di una crisi che si cerca di negare? E intanto, le bollette energetiche di maggio sono risultate del 22,4% più care di quelle del bimestre precedente. E i nostri stoccaggi solo al 60%, tanto che qualcuno comincia ad avanzare dubbi sulla tenuta per l’autunno/inverno. Ma nessuno ne parla. Tantomeno il Governo. Ma sul medio periodo, questo sul Ftse Mib peserà. E sulle banche, ancora di più. Molto più dei comunicati stampa.
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