A cosa serve l’Isis, di fatto l’Amazon del caos, pronto a consegnare destabilizzazione a domicilio, su richiesta e puntualissimo? A spaventare. E la paura è il miglior alleato di chi ha qualcosa da nascondere. Ad esempio, il fatto che una guerra sia già in atto. Combattuta con armi che non lasciano a terra morti e feriti come nel teatro moscovita. Ma potenzialmente in grado di creare danni maggiori. E che, soprattutto, oggi vede l’Occidente già sotto attacco. L’Europa, poi, addirittura destinata a cadere per l’ennesima volta come un’avanguardia di prima linea colta di sorpresa. Bastava leggere il Financial Times di sabato scorso.



Mentre i media di tutto il mondo libero alternavano le cronache del terrore russo all’outing di Kate Middleton (strano timing scelto per la messa in onda di un video girato 2 giorni prima, in perfetta contemporanea con le breaking news da Mosca, quasi si volesse fare concorrenza), ecco che il quotidiano proprio della City rendeva noto come la Cina abbia bloccato l’utilizzo di chips Intel e AMD da tutti i devices governativi. Esattamente quanto già fatto in passato con Apple. Per capirci, il mercato cinese pesa per il 27% delle vendite totali di Intel e per il 22% di quelli di AMD.



Direte voi, il problema è capire quanto pesa il settore pubblico all’interno di quelle percentuali. Vero. Ma io ribatto: il problema è capire, una volta per tutte, la filosofia del regime cinese. Vietare quei chips nell’amministrazione statale rappresenta un messaggio chiaro agli Usa e all’Europa. Non a caso, la notizia è stata depotenziata e nascosta rispetto al risalto che avrebbe meritato. Ma onestamente inserita nella sezione Technology sector del quotidiano finanziario. Tradotto, la Cina ha appena telegrafato a chi di dovere che sa dove colpire per fare più male. Senza bisogno di Isis o missili. La bolla azionaria tech e dell’intelligenza artificiale. Perché in Cina, se il Governo vieta un componente ai suoi dipendenti, non ha bisogno di estendere ufficialmente il bando a tutto il resto della società. Quest’ultima si accoda da sola. Docile e spaventata delle conseguenze. Magari solo potenziali. Ma i chips in questo caso sono come il dentifricio: meglio prevenire che curare. E questo grafico va anche oltre: a vostro modo di vedere, questa accelerazione enorme nell’acquisto di rame da parte della Cina da inizio rispetto alle media storiche, cosa vuole dirci rispetto alla sua scelta di deterrenza finanziaria e di commodities weaponization verso il nemico?



Gli Usa possono rischiare un’esplosione della bolla equity a otto mesi dalle presidenziali e con la Fed in modalità equilibrista, forse? No. Il problema? In America, chi di dovere è conscio di quanto sta accadendo sottotraccia. Ne discute. E prende decisioni e contromosse. In Europa viviamo nella totale inconsapevolezza. O ignoranza. E incentriamo i vertici su sterili discussioni riguardo la disperata ricerca di un ennesimo calcione al barattolo del deficit strutturale e terminale attraverso gli eurobond per la difesa. Insomma, speriamo che riempire di commesse Leonardo e Finmeccanica sia sufficiente. Con il deficit al 7,2% e una Manovra correttiva in arrivo in autunno, contemporanea al contagio di tracollo industriale e degli ordinativi tedeschi. Auguroni.

Nel frattempo, la Cina ha accumulato petrolio russo, fregandosene delle sanzioni. Ha acquistato e continua ad acquistare oro fisico con il badile. E adesso comincia con l’autarchia da chips. Quantomeno minacciata. Sapendo che il principale produttore al mondo, TMSC, è di Taiwan. Ovvero, cinese. Ricorderete poi come sempre dall’Asia, la scorsa settimana sia arrivata l’eco di un trend che doveva cominciare a far riflettere. Le cancellazioni di carichi di grano statunitense da parte delle autorità cinesi hanno raggiunto oltre mezzo milione di tonnellate. Livelli mai toccati nella serie storica tracciata dalla Usda. E i futures su quella materia prima trattati alla Borsa di Chicago hanno patito il colpo. Nulla che faccia gridare all’allarme immediato. Ma quando il primo importatore agricolo del mondo comincia a boicottare e utilizzare le cancellazioni come arma di pressione politico-economica, meglio non minimizzare il rischio di escalation. E ora, il bando ai chips. E il disvelamento degli acquisti da provvista di guerra di rame.

Contemporaneamente, poi, altre due commodities che operano notoriamente da proxy di rischio come oro e petrolio hanno inviato segnali chiari. Il primo ha sfondato il record storico di valutazione dell’oncia, proprio a seguito del discorso di Jerome Powell al termine del Comitato monetario della Fed. Il medesimo discorso che ha portato al contemporaneo massimo di tutti i tempi per lo Standard&Poor’s 500. Una correlazione abbastanza chiara. Ancorché nella sua apparente irrazionalità economica. Se infatti il rialzo dei tassi giapponese ha avuto come risposta uno yen indebolito, il messaggio della Banca centrale Usa rispetto a tre tagli dei tassi nell’anno in corso rispetto ai due temuti dal mercato è riuscito nel miracolo di mettere d’accordo sia l’azionario più in ebollizione dal 2008 che il bene rifugio per antonomasia nella tesaurizzazione delle aspettative di crisi. In compenso, il petrolio è tornato sui livelli dello scorso novembre. E tutto in base proprio alle rinnovate tensioni sul fronte ucraino. Nella fattispecie, la campagna di droni contro raffinerie russe, costrette da settimane a stop per manutenzioni inattese e testimoni di un netto calo delle esportazioni di diesel. Prima dell’attacco di Mosca, quindi.

Quale prospettiva per l’oro nero, stante il clima di escalation in atto dopo l’attacco dell’Isis? Basteranno i giochini con i futures per evitare fiammate che ingolosiscano a loro volta l’Opec e la sua fame di entrate fiscali? Insomma, uno scenario che contempla e incorpora riflessioni, prima di rischi. Perché nemmeno i proclami più bellicosi giunti a più riprese nei mesi scorsi proprio dal cartello dei Paesi produttori rispetto ai tagli all’output avevano sortito un effetto di leva simile sulle valutazioni del barile. Sintomo che la tensione geopolitica può operare da variabile finanziaria e macro in maniera decisamente più efficace e meno prevedibile delle mosse delle Banche centrali. E questo grafico ci mostra come la possibilità di un super-ciclo delle commodities che ricordi per ampiezza quello degli anni Settanta non è da potersi escludere a priori, quantomeno stante appunto i troppi scenari di crisi internazionali aperti, dall’Ucraina al Mar Rosso, da Gaza a Taiwan.

In un regime generale di timida uscita dall’emergenza legata all’inflazione, ancora oggi ago della bilancia delle attendiste scelte delle principali Banche centrali rispetto al regime dei tassi di interesse. Un super-cycle delle materie prime, quale effetto dinamo potrebbe potenzialmente innescare a livello inflattivo? E quali risposte monetarie e sugli assets? La Cina tace. Ma questo non significa che stia ferma. Anzi.

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