Chissà se ora Carige la salveranno i cinesi. Nel caso sareste contenti? Vi sentireste tranquilli, in caso ne foste dipendenti, azionisti, obbligazionisti o correntisti? Perché signori, il messaggio arrivato da BlackRock è stato chiaro. Hanno mostrato interesse per l’istituto genovese, approntato un piano di investimento che mettesse la banca al sicuro con un’esposizione relativamente bassa (almeno per un soggetto finanziario di quel livello, visto che si parlava di un impegno che non superasse i 400 milioni), fatto mettere lo champagne in ghiaccio a casa Malacalza e poi, sul più bello, bye bye. Ieri mattina presto, prima che la Borsa aprisse e mentre tutti i talk-show facevano professione di antifascismo militante, disquisendo su Salone del Libro e Casal Bruciato, ecco che arriva la doccia fredda: BlackRock si ritira dall’affare. Ora non resta che il salvataggio di Stato (chiunque solo avanzi l’ipotesi della mitica “alternativa di mercato” o l’ennesimo aumento di capitale mente, sapendo di mentire), ora non resta che prendere atto di un’altra Mps da mettersi sul groppone. Oppure, vedremo, del primo caso di ingresso di capitale cinese in una banca sistemica del territorio. In ogni caso, auguroni.



D’altronde, quando il tuo sistema bancario è sanissimo, succedono queste cose. Ma il problema reale non è nemmeno questo, è il messaggio politico che sta dietro quel cambio di rotta a dover preoccupare. Carige non è la prima, né sarà l’ultima banca decotta con cui questo Paese dovrà fare i conti. Il problema è avere degli incompetenti totali al governo, un pensionato in servizio attivo a capo della Consob e, in compenso, un ministero dei Rapporti con l’Ue totalmente assente, stante l’interim fallimentare del primo ministro. Ed ecco i risultati. In meno di sei mesi, ci siamo totalmente isolati in ambito europeo, ci siamo inimicati gli Stati Uniti e abbiamo dato vita a un’alleanza con la Cina che, fino a oggi, ha portato in dote due container di arance da spedire a Pechino. Il tutto, in piena escalation di guerra commerciale fra i due principali players globali e con la nostra economia che resta sopra il pelo dell’acqua della contrazione solo grazie all’export. Una sfilza di errori e idiozie strategiche simili penso che non si riesca a inanellare nemmeno mettendosi d’impegno: il governo del cambiamento ce l’ha fatta, chapeau.



D’altronde, Giuseppe Conte chiamava Trump “amico Donald”, ricordate? Faceva la ruota da pavone durante le photo opportunities alla Casa Bianca, millantando cabine di regia a guida italiana per la Libia, altro capitolo che abbiamo visto come sia andato a finire. E, infatti, uno dei soggetti finanziari statunitensi più operativi in assoluto si era mosso per mettere una pezza alla situazione non più procrastinabile di Carige. Salvo sfilarsi proprio sul più bello, tramutando un problema serio in uno monumentale, visto anche i pessimi rapporti con l’Ue e i paletti che potrebbero venire imposti da Bruxelles e Francoforte a operazioni di salvataggio statale. Non tanto per gli ammontare in denaro e nemmeno per il precedente, vista la sfilza di istituti disfuzionali cui si è messo mano in questo Paese e grazie al mea culpa tardivo e un po’ paraculesco della commissaria Vestager in merito (attenzione, però, perché potrebbe scattare l’aut aut europeo pre-elettorale, cioè la scelta fra via libera ai risarcimenti per i presunti truffati dalla banche o salvataggio di Carige). Bensì per il fatto che, a oggi, siamo una banderuola in balia del vento. Né carne, né pesce. E nel momento peggiore possibile: con un Governo che attende solo il 27 maggio per mandarsi a quel Paese e alla vigilia di una Legge finanziaria 2020 che Dio solo sa come verrà approntata e da chi, visto che solo un pazzo o un professionista delle missioni impossibili si prenderà la briga di mettere mano a un Def che parte da quota -23 miliardi, solo per le clausole di salvaguardia da disinnescare, onde evitare l’aumento dell’Iva dal 1 gennaio prossimo.



Temo che l’Iva aumenterà e, occorre ammetterlo, sarà il male minore, quantomeno anche gli evasori pagheranno un po’ di tassazione indiretta, facendo benzina, la spesa o shopping. Magra consolazione, lo so, ma tant’è, questo passa il convento. Perché da qui al prossimo anno saranno ben altri i grattacapi con cui avremo a che fare, statene certi. In primis, ciò di cui vi parlavo nel mio articolo di ieri: l’addio di Mario Draghi alla guida della Bce e la possibilità che il nuovo arrivato, in caso la recessione venga smorzata sul nascere dall’azione congiunta di Fed e Pboc, deciderà che è ora di farla finita con il trattamento di favore verso il nostro debito. Perché signori, proprio l’altro giorno, un’istituzione finanziaria di primo livello come Jefferies, anch’essa statunitense come BlackRock, casualmente pubblicava un report nel quale veniva messo in evidenza come la variazione della capital key nel reinvestimento titoli della Bce, già oggi stia schermando l’Italia ben oltre quando fosse stato statutariamente pattuito in seno al board, anche dopo le modifiche di forward guidance monetaria occorse il novembre scorso. Lo certifica questa tabella contenuta nel report: il ribilanciamento interno alle detenzioni di bond sovrani doveva vedere una graduale prevalenza di Bund sui nostri Btp, invece da inizio anno la Bce ha aumentato il controvalore di titoli italiani a bilancio a discapito di quelli tedeschi. Scudo anti-spread in toto, di fatto un Qe che prosegue “sotto copertura”.

Non vi stupirà sapere che questo studio ha fatto molto rumore sulla stampa tedesca, soprattutto su Die Welt che vi ha dedicato il suo seguitissimo podcast economico-finanziario della sera. Il segnale è chiaro: un’istituzione finanziaria Usa di primo livello svela, nel momento politico più delicato per l’Italia, che il Re del trattamento di favore di Draghi nei nostri confronti è nudo. Poche ore dopo, BlackRock lascia in braghe di tela Carige. E i tedeschi, contro i quali abbiamo lanciato accuse di ogni genere negli ultimi trimestri – alcune sacrosante, altre semplicemente ridicole – stanno a guardare, con i pop corn in mano. E ben felici che sui radar delle sale trading ci finisca – e con motivazione emergenziale – l’istituto genovese e non più Deutsche Bank, almeno per un po’.

Ma noi siamo furbi, siamo il Paese con il Governo del cambiamento! Quello che in un eterna riedizione dell’8 settembre, prima sposa incondizionatamente la linea della Casa Bianca, pur di farsi comprare Btp. Poi, quando scopre che gli Usa non hanno un fondo sovrano che statutariamente può sostenerci come fa la Bce (e i Primary Dealers servono ad altro, soprattutto a reggere Wall Street attraverso il Plunge Protection Team di reaganiana memoria e istituzione), poi si sposta verso la Russia, millantando ipotetiche garanzie governative del Cremlino sul nostro debito (capirai che garanzia, un governo che sta comprando oro fisico come se stesse per scoppiare la Terza guerra mondiale, a vostro modo di vedere per diversificare compra Btp?) e infine gioca la carta disperata della Cina, prima con il viaggio del ministro Tria e poi con l’azzardo supremo del memorandum sulla Nuova Via della Seta. Risultato? Senza la Bce, avremmo lo spread a 500. Già oggi. In compenso, non abbiamo più mezzo alleato che ci ritenga credibili e sia pronto a soccorrerci. Se non, appunto, quella Francoforte che il Governo giallo-verde riempie di contumelie populiste a ogni piè sospinto. Ma attenzione, perché la sabbia nella clessidra sta scorrendo velocemente. Sempre più velocemente.

Guardate questo altro grafico, ci mostra come le dinamiche anche del debito pubblico mondiale e delle sue detenzioni estere e strategiche siano cambiate. All’asta di Treasuries statunitensi a 10 anni di mercoledì si è operato in modalità disastro, visto che la domanda è stata la più bassa dal 2009. Inevitabilmente, il rendimento che si è dovuto offrire è salito. E parecchio. Si è pagato lo yield massimo del 2,479% visto che la ratio bid-to-cover è scesa dal 2.55 al 2.17.

Chi è mancato all’appello per quei 27 miliardi di controvalore di carta da parati Usa? La Cina, ovviamente e la sua domanda di debito estero, essendo in pieno svolgimento la pagliacciata dell’escalation della guerra commerciale. Pensate che in America siano preoccupati? Per nulla. Anzi. Loro vogliono tassi più alti sul debito, altrimenti con quale maledetta scusa al mondo – stante le balle che raccontano sui dati macro dell’economia – la Fed sarebbe giustificata a tagliare i tassi? Per l’inflazione all’1,6% ritenuta troppo bassa, forse? E, a vostro modo di vedere, con una situazione strutturale simile, gli Usa si metteranno a comprare Btp come millantavano i geni del sovranismo, una volta che la Bce cambierà guida e quindi anche guidance?

Signori, ieri è stato il giorno del trailer, abbiamo visto l’anticipazione succosa, ma ancora in sedicesimi di ciò che ci aspetta. Anzi, di ciò che aspetterà chi dalla prossima estate prenderà il posto del Governo attuale nella disperata missione di governare il Paese. O, forse, si dovranno attendere le prime brume d’autunno, poiché il copione dei tonfi agostani del 2011 è risultato talmente efficace e credibile da dover per forza essere ripetuto. Quantomeno, per offrire platealmente a Mario Draghi l’ultima, emergenziale scusa per intervenire in seno al board per piegare la politica monetaria verso un’angolatura smaccatamente espansiva, quasi da ritorno tout court agli acquisti diretti. Saremo noi il canarino nella miniera dell’eurozona, statene certi.

E per chi crede alla vulgata in base alla quale questa Commissione Ue verrà spazzata via dal voto di fine mese, faccio notare che il prolungamento dell’agonia del Brexit, dovuto proprio alla partecipazione del Regno Unito alle europee, in caso di risultato poco gradito, potrebbe spingere Ppe e Pse (insieme, sicuramente con la maggioranza die seggi in mano) a chiedere una proroga del mandato alla presidenza Juncker, proprio al fine di portare a termine l’operazione di addio all’Europa di Londra, visto che i tempi contingentati poco vanno d’accordo con quelli morti che l’insediamento di un nuovo esecutivo comporterebbe. Insomma, il conto post-voto l’Italia lo pagherebbe tutto. E a portarcelo sarebbero ancora i vari Juncker, Dombrovskis e Moscovici. Attenti, non è un’ipotesi così peregrina. Anzi.

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