La pagliacciata svizzera non si è rivelata tale. Perché se dar vita a una conferenza di pace sull’Ucraina senza Cina e Russia già equivaleva ad andare a pesca sul Monte Bianco, il fatto che i Brics abbiano rovinato la pantomima dell’unanimità nella dichiarazione finale dice invece molto su quanto sia stato deciso alla riunione del Paesi emergenti conclusasi pochi giorni prima a Mosca. E di quanto la narrativa occidentale stia, giorno dopo giorno, sciogliendosi come neve al sole.



Non è un caso che il Financial Times nella sua edizione doppia del weekend abbia deciso di dedicare il servizio principale al tema plasticamente rappresentato in questo grafico.

Nel mese di maggio, l’Europa ha importato più gas da Mosca che dagli Stati Uniti. Ops. Certo, il conteggio vede gli Usa svantaggiati, poiché alle loro esportazioni fa riferimento solo il gas naturale liquefatto (LNG), mentre la Russia può vantare anche quello via pipeline terrestre. Altresì, sempre nel mese di maggio alcuni dei principali gassificatori statunitensi erano in operatività part-time a causa di lavori di manutenzione. Quindi, meno export. Ma questo grafico di domande ne pone comunque tante. E tutte scomode.



Primo, al netto di tutte le attenuanti e del fatto che il gap da colmare non pare certamente insormontabile, non ci avevano venduto la barzelletta della Russia letteralmente alla canna del gas, poiché l’Europa era ormai totalmente affrancata dal ricatto energetico di Gazprom? Non mi pare sia così.

Seconda domanda, necessaria dopo la decisione folle e senza alcuna base giuridica presa al G7 riguardo gli utili dei beni congelati russi da destinare a Kiev: da dove passano le pipelines di Gazprom che nel mese di maggio hanno garantito gas all’Europa? Dall’Ucraina. Le cui casse statali beneficiano di tasse di transito pagate dal nemico. Ora, vi pare normale sfidare il diritto internazionale in nome di un’interpretazione distorta delle sanzioni, quando il principale bene sanzionato del soggetto in questione fluisce tranquillamente attraverso il territorio dell’aggredito, il quale incassa sostanziose commissioni di passaggio (oltre ai miliardi senza fondo della Nato)? In quale mondo da barzelletta è accettabile una logica simile?



Forse non stiamo ben capendo quale siano i nuovi equilibri in gioco. E in progress. L’Arabia Saudita non solo ha ridimensionato il ruolo del petrodollaro, di fatto festeggiando il cinquantennale di quell’accordo con l’apertura a scambi in altre valute (yuan in testa). Ma ora si sta lanciando in uno shopping di commodities che sembra confermare quanto scrissi alcuni mesi fa: Ryad punta alla creazione di una Borsa delle materie prime. Nel mese di luglio, infatti, il ministro per l’Industria e le Risorse minerarie di Ryad, Bandar Alkhorayef, si recherà in Cile in cerca di un accordo per lo sfruttamento di miniere di litio. E sempre dalle parti degli uffici governativi di Santiago, si parlerà anche del destino di Codelco, azienda mineraria a controllo statale ma soprattutto leader mondiale nella produzione di rame. La quale ha appena segnato il peggior dato di output dal 2006 e, soprattutto, annega sotto un debito di 20 miliardi di dollari. Ryad, invece, ha cash flow fresco appena ottenuto dall’emissione di nuove azioni di Aramco. Tutto alla faccia della transizione green, ovviamente.

Insomma, l’Arabia tenta lo shopping di commodities strategiche nel giardino di casa Usa. La Cina, si sa, è già oggi monopolista pressoché di tutte le materie prime più strategiche, terre rare in testa e soprattutto quelle fondamentali per microchip e AI. Bene, in un contesto simile, l’Europa non solo si permette di dichiarare guerra totale a una Russia che, ancora oggi, le permette di accendere le luci. Ma pare pronta a offrire semaforo verde per un bis a una Commissione Von der Leyen, ovvero la quinta colonna degli interessi statunitensi nel Vecchio continente. Ora, davvero il problema è l’onda nera di Francia, Germania e Austria? Non sarà che il pericolo, in realtà, si presenti con una variopinta casacca a stelle e strisce?

Non sia mai. O forse no, visto che anche su queste pagine ultimamente sono comparse analisi e proposte che fino a non più tardi di due settimane fa sarebbero state bollate come anti-americane e filo-cinesi. Perché quello americano è il sistema di riferimento. Ma d’altronde, quando l’acqua arriva alla gola, conta solo sopravvivere. Primum vivere. Vale per il Financial Times, la cui direzione e redazione sono ovviamente consci del bluff energetico fin dall’inizio, ma, stranamente, hanno deciso solo ora che fosse arrivato il momento per mettere le mani avanti. Proprio adesso. Dopo lo shock silenziato del petrodollaro. Dopo il meeting dei Brics a Mosca. Dopo il warmongering da Muppet Show del G7. E, soprattutto, in contemporanea con l’ammutinamento del Sud del Mondo contro la pagliacciata svizzera per riempire ulteriormente di soldi le casse di Kiev. Le stesse che non disdegnano le tasse di transito del gas da parte del nemico.

Ora, fermatevi un attimo e ponetevi una domanda, in vista dell’autunno. Se gli Usa già oggi non ci rimpinzano di gas, tanto che vengono superati da una Russia sotto sanzioni e il loro Lng costa un capitale rispetto al gas russo, oltretutto con un Oceano di mezzo che rende alquanto instabile e non garantito il flusso, cosa accadrà alla medesima industria europea che ha appena segnato un -3% su base annua nel dato della produzione di aprile?

Esatto, ciò che vi dico da mesi. De-industrializzazione terminale. E banchetto a prezzo di saldo dei nostri cavalli di razza da parte di Usa e Cina. E poi, scusate, al netto di quel grafico del Financial Times, forse non sarebbe il caso di chiedere conto al Governo dell’altra colossale barzelletta venduta all’opinione pubblica? Ovvero, l’affrancamento da Gazprom grazie non solo all’Lng statunitense ma anche al gas del Maghreb, soprattutto algerino. Signori, il gas in Maghreb arriva passando dal Niger. Il quale oggi è a tutti gli effetti un protettorato russo. Inoltre, l’utility statale algerina è a sua volta una sussidiaria di Gazprom.

Signore e signori, Madama Realtà è entrata a palazzo. Ora che lo scrive il Financial Times e non un povero diplomato senza laurea, ci credete? Ma tranquilli, l’energia sarà un problema da settembre. I 20 miliardi da trovare per rientrare dal deficit eccessivo, invece, da subito. Che strano. Anche in questo caso, è bastato attendere che passassero le elezioni. Et voilà, si balla.

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