Volete capire quanto la Borsa sia manipolata, falsa, incapace ontologicamente di rappresentare la realtà economica di un Paese o del mondo intero? Non ci vuole molto, bastano due elementi. Uno grafico e l’altro, per così dire, “politico”. Quello grafico è bello e servito nel grafico che ci mostra il crollo del sentiment di mercato tracciato dell’indicatore Fear&greed della CNN. Chi mi segue, si ricorderà che non più tardi di dieci giorni fa avevo già pubblicato quel tracciatore ed era al massimo storico, roba da bolla precedente al botto nel 1999 e nel 2007. Direte voi, il coronavirus ha cambiato tutto. Mica tanto: il problema reale è sorto soltanto con il tonfo delle Borse asiatiche di ieri, perché anche la giornata di lunedì aveva visto Wall Street tamponare le perdite, non fosse altro per le barzellette assortite che la stagione delle trimestrali garantisce (leggete i numeri offerti da Tesla, a fronte della crisi cinese dell’auto elettrica e fatevi due risate).



E cos’è successo nella notte fra mercoledì e giovedì? Due cose. Primo, la Cina ha fatto ciò che nostra madre ci diceva sempre di non fare di fronte a un cane: ha mostrato di aver paura. E lo ha fatto in maniera plateale, visto che la Reuters ha riportato in un suo articolo le dichiarazioni rilasciate al settimanale Cajing da Zhang Ming, economista definito “governativo”. Ovvero, membro della task-force del ministero. E cosa diceva la nostra fonte molto accreditata? Che stante i ricaschi del coronavirus, se la situazione non venisse contenuta in tempi rapidissimi, la crescita economica cinese del primo trimestre – annualizzata – potrebbe essere al di sotto della soglia psicologica del 5%. Ma non basta. Per Zhang Ming “l’impatto di questa epidemia potrebbe essere significativamente maggiore di quello della Sars, una condizione che molto facilmente obbligherà il governo a entrare in gioco direttamente per supportare l’economia. Scelta obbligata, ma che potrebbe portare il deficit di budget sopra il 3% del Pil per il 2020. Le mie previsioni si basano su una timeline che prevede il picco dell’epidemia del virus fra metà febbraio e la fine di marzo”.



Insomma, il Re è nudo. Un po’ come ci diceva, sottovoce, il dato sul crollo delle valutazioni del rame da dieci giorni a questa parte che ho pubblicato nell’articolo di ieri. E attenzione, signori: non prendiamoci in giro. Tutti sanno che da almeno tre, quattro anni, i dati di crescita cinesi sono più “taroccati” di quanto non siano stati fino ad allora. Ovvero, già oggi i loro millantati 7% o 6% di Pil erano in realtà di almeno un punto percentuale inferiori: andare sotto il 5% significherebbe quindi essere in realtà più in area 3,5% che 4%. Il mondo può reggere le pressioni debitorie in cui si infilato con una Cina che cresce la metà di quanto faceva solo fino al 2015? No. Perché salterebbero tante di quelle dinamiche, non ultima l’esportazione cinese di deflazione a fronte però del continuo impulso creditizio, da mandare tutto il castello a carte e quarantotto. Perché ora per Pechino si mette male: come si giustifica, agli occhi di chi investe e non dell’opinione pubblica, un’iniezione monstre e costante di liquidità, senza precedenti, a fronte di dati macro che ufficialmente erano comunque al 6% di Pil fino allo scorso trimestre? Qualcuno andrà a vedere il bluff dello schema Ponzi del Dragone, magari? Perché una situazione come quella che stiamo vivendo, rappresenta la classica arma a doppio taglio.



Da un lato garantisce l’alibi perfetto per tornare a stimolare l’economia: come nel 2019 fu la guerra commerciale a giustificare il rallentamento della crescita di Pechino, ecco pronta la scusa della pandemia per l’ulteriore rallentamento di quest’anno. Dall’altro, però, paradossalmente rischia di svelare l’altarino di base: ovvero, i conti palesemente gonfiati del passato. Se si mente sul numero di persone contagiate o addirittura morte, si avranno avuti scrupoli a farlo – ad esempio, – sul numero reale di default su bond aziendali denominati in dollari? Ne dubito. Siamo di fronte al rischio del mitologico hard landing cinese, la fine della corsa per l’iper-produzione del Dragone e il redde rationem con la bolla debitoria che l’ha resa possibile? Difficile, a questo punto, negarlo o escluderlo a priori.

E veniamo ora all’altra metà del cielo della manipolazione, ovvero gli Usa. Su tutti i giornali e i siti di informazione, ieri avrete letto che mercoledì sera la Fed ha lasciato il tasso di riferimento invariato, intervenendo in maniera minima solo su quello delle riserve bancarie. Insomma, immobilismo. Balle. La Federal Reserve non solo ha, come vi avevo anticipato, prolungato le aste term e repo fino alla fine di aprile, alla faccia della loro chiusura alla fine di gennaio, ma ha anche certificato la prosecuzione degli acquisti di T-bills in seno al Qe fino a tutto il secondo trimestre di quest’anno compreso e non più fino soltanto ad aprile. A casa mia, questa si chiama politica espansiva. E di quelle enormi, visti i controvalori in ballo soltanto con l’operatività sul breve termine nella fornitura di liquidità al sistema da parte della Fed di New York.

E cosa ci dice questa mossa? Che in America, come al solito, hanno un’unica priorità: salvare Wall Street. Perché le misure messe in campo non fanno assolutamente nulla (abbiamo un decennio di precedenti macro alle spalle che lo certificano) per la cosiddetta economia reale e tutto per il sistema finanziario. Ovvero, banche, fondi e hedge funds. I quali, per altri tre mesi almeno, godranno quotidianamente di 50-80 miliardi almeno di liquidità garantita, oltre a circa 30 miliardi nelle aste term a più lunga maturazione. E, tanto per gradire, altri tre mesi garantiti di Qe, durante i quali scaricare alla Fed i bond che hanno in pancia, ottenendo altra liquidità. Il sistema, signori, è agli sgoccioli. Sta in piedi attraverso emergenze e mosse sempre più estreme, ancorché non percepite come tali dall’opinione pubblica.

E c’è da aver paura al pensiero che manchino ancora nove mesi all’appuntamento con le presidenziali del 3 novembre: cosa potrà e dovrà accadere ancora in seno alla campagna elettorale parallela di finanza, complesso bellico-industriale, avanguardia tech e Deep State? Sapete ad esempio cosa sta accadendo in Virginia, in queste ore e giorni? Il Congresso di quello Stato sta portando avanti una campagna legislativa per la restrizione dell’utilizzo e del porto di armi, di fatto ciò che l’americano medio vede come un attentato al Secondo Emendamento. Il 20 gennaio scorso, migliaia di manifestanti hanno protestato in modo pacifico in quello che è stato definito il Lobby Day. Bene, per tutta risposta l’Assemblea generale con sede a Richmond ha presentato altri 9 progetti di legge, tutti in chiave restrittiva, fra cui una sorta di bando a tempo – estensibile fino a un massimo di 180 giorni – che riguarderà persone ritenute in grado di nuocere a se stessi e agli altri, maneggiando un’arma. Una chiara provocazione: se uno è pazzo o squilibrato, difficilmente dopo 180 giorni di bando diventa di colpo equilibrato e responsabile. Eppure, la campagna politica va avanti. E la protesta monta. Qualcuno cerca lo scontro, utilizzando come sottofondo il tema scottante e doloroso delle armi-facili negli Usa? Oltretutto con un presidente che è dichiaratamente difensore strenuo del Secondo Emendamento?

Qualcuno, insomma, gioca criminalmente alla Seconda Guerra Civile americana in vista del voto, esasperando una situazione che è già da gara di fuochi artificiali nel piazzale di un distributore di benzina? Sono tempi pericolosi, torno a dirvelo. E la situazione, purtroppo, rischia soltanto di peggiorare, perché ora anche la Cina pare arrivata al proverbiale momento delle “spalle al muro” contro la realtà. E laggiù si va poco per il sottile, quando in ballo c’è la cosiddetta sicurezza dello Stato.