Missione compiuta. Con tante grazie a quei fessi di europei. Gli Stati Uniti oggi sono il principale esportatore di gas naturale liquefatto, stante numeri relativi al 2023 che hanno superato per la prima volta quelli di players storici del settore come Australia e Qatar.

Certo, finora l’inverno è sembrato più un lungo anticipo di primavera. E gli stoccaggi hanno retto, grazie anche agli acquisti backdoor che i Paesi europei stanno facendo dalla Russia attraverso nazioni proxies e triangolazioni da segreto di Pulcinella. Ma per chi ragiona sul lungo periodo e non sull’orizzonte del semestre, questo re-shoring con vista Oltreoceano di un elemento esiziale per la produzione industriale rischia di tramutarsi in una trappola. Politica prima ancora che meramente legata all’approvvigionamento di commodities.



Se infatti di fronte alla Corte europea già pende un contenzioso per inadempienza fra Ue e Venture Global, uno dei principali operatori Usa, soltanto uno sprovveduto può pensare che d’ora in poi Washington non userà ancora di più e più frequentemente interruzioni e ritardi a orologeria nelle forniture per imporre – se possibile in maniera ancor più arrogante e sfrontata – la propria agenda geopolitica all’Europa. E stante l’aria che tira, questo significa altissima probabilità di divenire prima linea sacrificabile nei vari contenziosi a colpi di sanzioni e dazi che gli Usa potrebbero aprire, dalla Cina alla Russia fino alla troppo esuberante Arabia Saudita.



Ma non basta. Date un’occhiata a quest’altro grafico.

Ci mostra come con l’arrivo dell’anno nuovo gli Stati Uniti abbiano in contemporanea festeggiato un altro record: stando a dati ufficiali del Treasury al 29 dicembre scorso, il debito Usa ha superato quota 34 trilioni di dollari. E come mostra il grafico, solo nel gennaio 2009 era a quota 10,6 trilioni. Per capirci: il debito di Zio Sam è salito di 1 trilione negli ultimi 3 mesi, 2 trilioni negli ultimi 6 mesi, 4 trilioni negli ultimi due anni e 11 trilioni negli ultimi 4 anni. Ovvero, a partire dalla pandemia di Covid. Il vero reset. Al contrario. E con 1 trilione soltanto di spese per interessi all’anno, capite perché l’inflazione non sia affatto un problema ma una soluzione, oltretutto facilmente manipolabile dalla stessa Fed che prima l’ha negata, poi ridimensionata e infinite utilizzata come cavallo di Troia per puntellare il sistema bancario? Capite perché occorre monetizzare debito e finanziare deficit in maniera strutturale?



Perché nel terzo trimestre del 2023, il Pil statunitense è cresciuto a un tasso annualizzato del 4,9%, di fatto 547 miliardi in termini nominali. Nel medesimo arco temporale, il deficit di budget è salito di 622 miliardi. Chissà, qualcuno ora potrebbe essere sfiorato dall’idea che gli Usa stiano vivendo in uno sistemico Minsky Moment di insostenibilità dei conti, di fatto reso gestibile solo dal flusso ciclico di crisi globali e magheggi monetari. O forse è chiedere troppo. Perché presupporrebbe guardare in faccia la realtà. Meglio pensare ai pistoleri di Capodanno e farne un caso politico. Perché in realtà, signori, si comincia. Il gran valzer dei default legati al real estate commerciale scartavetrato dall’aumento dei tassi muove i primi passi. E visto il protagonista, it starts with a bang. Insomma, in grande stile. Roba da concerto di Capodanno a Vienna, Strauss in sottofondo e bond ridotti a carta igienica.

Certo, 531 milioni di euro non sono granché. Ma quando a cercare di vendere le obbligazioni in oggetto è Blackstone, stante un portfolio sottostante di uffici e spazi commerciali finlandesi acquistati nel 2018 da Sponda Oy, allora è meglio non voltarsi dall’altra parte. Perché i detentori di quei bond avevano dato luce verde a una prima estensione delle scadenze, certi che un colosso simile avrebbe rifilato quella paccottiglia da ri-cartolarizzare a qualcun altro. Ma preso atto dell’impossibilità di liberarsi da quella carta, il cui valore è stato eroso dal costo del denaro, gli stessi hanno bocciato un secondo grace period. Tradotto, default.

Il mondo finisce? Ovviamente, no. Ma l’acronimo Cmbs, i famigerati bond legati al commercial real estate, rischia di diventare il nuovo subprime. E se negli Stati Uniti finora il redde rationem è stato evitato dal pivot della Fed sul taglio dei tassi, ora l’epicentro rischia di divenire proprio l’Europa. Da un lato, il silenzioso dipanarsi della querelle legata all’austriaca Signa e alle sue esotiche esposizioni bancarie. Dall’altro, l’affaire scandinavo. Perché mentre i tg si concentrano sulle temperature glaciali che stanno attanagliando Finlandia e Svezia, i due Paesi cominciano a sentire i brividi per altri motivi.

Stoccolma sta infatti facendo i conti con un tasso di fallimenti che non si registrava dalla crisi degli anni Novanta. Nel 2023, un +29% su base annua totalmente riconducibile all’esplosione della property bubble che sta letteralmente paralizzando il sistema bancario. E si tratterebbe solo della punta dell’iceberg, tanto più che dopo 18 mesi di rialzo dei tassi, la Riksbank ha azzardato uno stoomp in concomitanza del primo rallentamento dell’inflazione. Nel frattempo, il numero di startups in settori chiave come costruzioni e retail segna i minimi da oltre un decennio. Tradotto, recessione. Che una catena di default, però, potrebbe tramutare da soft – come giocoforza ora concedono come epilogo certo anche gli analisti e la stessa Banca centrale – in hard, di fatto in un contesto regionale che è quello descritto dal mancato pagamento di Blackstone su quei bond.

Che fare? Beh, il fatto che quell’area da tempo sia al centro di una forsennata campagna di ingresso nella Nato potrebbe rivelare una strategia parallela che somigli al paracadute d’emergenza. O forse eccediamo in complottismo? In caso la Riksbank non riuscisse a estrarre un coniglio dal cilindro entro fine mese, quanto scommettete che Stoccolma e Helsinki diverranno di colpo obiettivi prioritari di rinnovati attacchi hacker russi?

D’altronde, se il cyber e il financial warfare rientrano ormai a pieno titolo nelle fattispecie di guerra ibrida, chi potrebbe obiettare su un’estensione a livello finanziario dell’Articolo 5 dell’Alleanza, quello che impone la difesa comune di un membro (o candidato, in questo caso) sotto attacco esterno? Detto fatto, la Turchia con il suo veto e targhe alterne diviene ancora una volta soggetto dirimente. Non a caso, nonostante un’inflazione fuori controllo, Ankara riesce sempre a trovare lo swap dell’ultim’ora per tamponare le riserve. Tout se tient.

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