Proviamo così, brutalmente. Questo è l’indice benchmark tedesco alla chiusura di venerdì scorso. Il ben noto Dax.
Massimo storico. Domando a voi: fatte salve le recessioni globali – Lehman, 2011, Covid, Ucraina -, ricordate un momento storico in cui l’economia tedesca sia stata più debole?
Lo dicono tutti. Qualcuno senza nascondere la Schadenfreude per la disgrazia del primo della classe, qualcuno avendo l’accortezza di incorporare nel giudizio – ad esempio – il grido di dolore che già arriva da interi distretti italiani della subfornitura e della componentistica. La Germania non ha un singolo indicatore che non confermi recessione. E non più tecnica. Ufficiale.
E non basta. Restando sul Dax, appare quantomeno bizzarro un rally del 20% da inizio anno al netto di utili che segnano -2,5% su base annua. Oltretutto, guidato dai titoli finanziari. I quali operano da driver dei rialzi grazie all’El Dorado dei tassi alti. Ma se il mercato prezza tagli già nel 2024, occorre incorporare. O, almeno, occorrerebbe in un mercato sano. E normale.
Certo, la ratio debito/Pil tedesca è ancora decisamente gestibile rispetto a quella italiana o spagnola o francese. Ma negli ultimi due anni, il combinato di sanzioni alla Russia e accelerazione della transizione green hanno costretto il Governo Scholz a mettere sul tavolo circa 200 miliardi di euro fra salvataggi di Stato, sostegni e garanzie. E se il malcontento sale e la Confindustria teutonica spinge per un ritorno emergenziale al nucleare, il tracollo dell’automotive e la crisi della chimica parlano la lingua della de-industrializzazione. Apparentemente irreversibile. Ma il Dax è ai massimi storici. Quindi, stando a certi diffusi sillogismi, gli indicatori macro sono errati. O forse non contano.
Forse conta solo la Bce. Ah no, quella conta per noi. E per la Spagna. Conta perché lo stop al roll-off dei titoli acquistati durante il Pepp a maturazione ha letteralmente inchiodato il nostro spread a quota 175. Non un plissé, qualsiasi cosa accadesse. Immobile. Ora però c’è un piccolissimo rischio di redde rationem. La Lega ha appena reso noto il suo no al voto di ratifica del Mes previsto il 14 dicembre, rinviando tutto al 2024. Forza Italia invece preme per votare subito. al fine di presentarsi al rush finale del negoziato sul Patto di stabilità con un cadeau di buona volontà. Fratelli d’Italia non pervenuti. Una Germania che probabilmente potrebbe avere bisogno del Mes, magari non direttamente per i suoi istituti ma sicuramente a livello europeo come deterrenza per evitare shock e contagi, come potrebbe reagire in sede Bce? Una Germania mai così debole a livello politico ed economico, davvero si accontenterà del suo Dax ai massimi storici?
Attenzione, perché il 14 dicembre non è solo il giorno in cui si dovrebbe votare la ratifica del Mes, ma è anche quello della conferenza stampa di Christine Lagarde dopo il board Bce. Certo, il Dax è ai massimi. E per qualcuno basta. Anzi, è tutto. Ma volete scommettere sul fatto che alla Berlino politica e industriale interessi altro, essendo consci del valore reale di un indice collegato alla stampante di Francoforte e che viaggia in tandem acritico con Parigi, Milano e Madrid? E noi abbiamo in mano almeno una coppia di 2, in vista dell’ultima mano da bluff collettivo prevista per dopodomani?
E attenzione ulteriore. Perché prima della Bce, tocca alla Fed. Oggi e domani. E con sullo sfondo una criticità da niente, come mostrano questi due grafici. Una criticità con data di scadenza decisamente ravvicinata, quindi. Come quell’ultimo yogurt del multipack – proprio quello dal gusto che detestate – che tenete davanti a tutto in frigorifero da settimane, sapendo di doverlo mangiare prima degli altri. Ma rinviate. E rinviate.
Bene, alla vigilia del board Fed più ignorato degli ultimi anni, ecco che i levereged funds hanno pensato bene di raddoppiare l’azzardo. Non contenti della maxi-posizione short sullo yen, schiantata dalla vocina di rialzo dei tassi fatta uscire e veicolata ad hoc dalla Boj, ecco che all’orizzonte di quell’istrione di Jerome Powell si palesa la più grande posizione short sui Treasuries a 2 anni di sempre. Record assoluto. E il secondo grafico ci mostra come lo stesso valga anche se si prendono le posizioni ribassiste combinate su titoli di Zio Sam a 2, 5 e 10 anni.
Ora, mettiamo la questione in prospettiva. Il mercato futures a oggi prezza 6 tagli dei tassi da parte della Fed a partire dall’aprile 2024. Un ritmo solitamente mantenuto solo nel corso di recessioni decisamente profonde. E mai avvenuto in anni di elezioni presidenziali. E se quella prezzatura fosse totalmente autoreferenziale?
D’altronde, Janet Yellen l’altro giorno è stata financo sarcastica: «Chiunque abbia parlato di soft landing per l’economia Usa, ora deve rimangiarsi le proprie parole». Come dire, altro che recessione. Il dato occupazionale si sostanzia come l’ennesimo mattoncino nella costruzione del Goldilocks principle che deve caratterizzare gli ultimi mesi di Amministrazione Biden. Come si concilia un’affermazione simile con una Fed in versione colomba emergenziale?
Ma il soft landing dell’economia Usa è un falso problema. Quantomeno nell’immediato. Qui occorre pregare per il soft landing di un basis trade da 1 trilione di dollari. Guarda caso, proprio l’epocale unwind di posizione a leva verso cui nelle ultime settimane i regolatori – Bis in testa – hanno messo in guardia come potenziale detonatore di una severa crisi di stabilità finanziaria. Vuoi vedere che la Bank of Japan, tra giovedì e venerdì scorsi, ha operato da canarino di lusso nella miniera del leverage globale, dando vita a uno stress test che ha lasciato con i polpastrelli carbonizzati la medesima categoria che oggi attende al varco la Fed dall’alto di una short position epocale?
Quasi certamente, domani Jerome Powell reciterà la medesima messa cantata della scorsa volta. Molte raccomandazioni a non abbassare la guardia contro l’inflazione, nuovi rialzi sul tavolo come la proverbiale pistola. Ma tutto fermo fino al 2024. Però… Quella posizione occorre redimerla in maniera ordinata. E in fretta. O saranno guai.
Signore e signori, ecco a voi il mercato. Quello che dovrebbe autoregolarsi.
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