Maledetti canarini. Sempre a tossire. Perché più di un segnale pare avvisarci su come nella miniera l’odore di grisù stia aumentando in maniera preoccupante. E rapida. Una miniera chiamata Europa.

Primo, al netto del pensionamento anticipato della narrazione sul soft landing, ecco che gli spread di credito delle aziende sull’orlo del precipizio da zombie firms cominciano a segnalare il rischio opposto. Un hard landing. Di quelli da schianto contro il muro.



E come si nota, la prospettiva ha stigma di probabilità molto più marcate in Europa che negli Usa. Attendiamoci miracolose revisioni, quindi.

Secondo, come mostra quest’altro grafico, il trend inflazionistico in Spagna – primo Paese che nei trimestri precedenti aveva visto il CPI tornare sotto il target Bce del 2% – è tornato a crescere per il quarto mese di fila. E cosa più preoccupante, il +3,5% registrato a ottobre rispetto al +3,3% di settembre è quasi interamente ascrivibile ai costi energetici. Tanto che Pedro Sanchez si trova già a dover decidere se e come prolungare gli aiuti a famiglie e imprese.



E come si nota dal grafico, la Spagna opera da segnale anticipatore di 3 mesi rispetto all’eurozona. Un vero e proprio canarino. Nel Paese che vanta almeno quattro hub di rigassificazione per LNG statunitense. Se le tensioni mediorientali già scontano un simile fall-out, l’Italia cosa deve aspettarsi da qui a fine anno, stante un accordo con l’Algeria rivelatosi un bluff e rapporti a dir poco gelidi con Gazprom?

Certo, stando al dato prima di Eurostat per l’Eurozona e poi di Istat per l’Italia, le pressioni dei prezzi paiono in calo strutturale. Addirittura a precipizio nel nostro Paese. Ma tutto sta nel bilanciare le componenti cibo ed energia, quest’ultima destinata a divenire davvero variabile esiziale per le economie. Europee in testa. A oggi, infatti, dall’Opec non è giunto un fiato rispetto al caos mediorientale. Ma se come sembra nelle intenzioni e nelle minacce, il conflitto dovesse espandersi all’Iran, chiaramente il quadro muterebbe. E la stessa World Bank ha parlato di un worst case scenario mediorientale con il greggio che raggiungerebbe i 157 dollari al barile entro fine anno. A oggi, la mossa congiunta di Opec e Russia del prolungamento del taglio della produzione al 31 dicembre ha sortito effetti visibili ma limitati. Gli hedge funds continuano a shortare l’energia. Ma davvero la recessione batterà la tensione geopolitica, gelando le economie e schiacciando i prezzi di gas e petrolio?



Così paiono dirci gli spread di credito delle aziende quasi-zombie. I maledetti canarini. Resta un fatto: decidere a quale delle due ipotesi votarsi è scelta deprimente. E decisamente preoccupante per l’Europa.

E l’Italia? And we have all the adequate tools in order to make sure that that happens. Questa frase è stata pronunciata giovedì scorso da Christine Lagarde come chiosa dopo un’interminabile risposta a due domande di una giornalista. La prima riguardava il ritorno dei titoli greci allo status di collaterale eligibile in ogni operazione di rifinanziamento Bce. La seconda riguardava lo spread italiano a 200 punti base e l’eventuale preoccupazione in tal senso presso la Banca centrale.

Prima Lagarde ha tessuto infinite le lodi della Grecia e del suo ritorno all’investment grade, parlando di performance stellare dell’economia ellenica. Poi, dopo una sorta di tiepida riproposizione del non siamo qui a chiudere gli spread della conferenza stampa di inizio mandato, la chiosa. Cioè, il mandato BCce è sì quello di perseguire la stabilità dei prezzi. Ma può sconfinare nel controllo della corretta trasmissione della politica monetaria nell’eurozona e nei suoi Stati membri. Ed ecco l’Italia e lo spread: And we have all the adequate tools in order to make sure that that happens.

Cosa significa avere tutti gli strumenti a disposizione, affinché sia assicurato quel meccanismo di trasmissione? Che la Bce è preoccupata ma sa come intervenire? O che non è preoccupata? E nel caso, cosa farebbe in concreto e nell’immediato? Sembrano quesiti di lana caprina, esercizi di stile. Ma non lo sono. Almeno leggendo cronache e retroscena del vertice Ue dello scorso fine settimana. Dove, apparentemente, Giorgia Meloni avrebbe subito un vero e proprio stalking politico: o ratifica italiana del Mes o addio riforma ammorbidita del Patto di stabilità. Il quale, giova sottolinearlo, tornerà in vigore a fine anno.

Lo ha confermato Ursula von der Leyen. In forma ufficiale. Il problema? Semplice, se i mercati prezzassero la possibilità di un eventuale braccio di ferro tra Roma e Bruxelles, immediatamente sconterebbero l’inevitabile: i conti della Manovra che saltano come tappi di bottiglia a San Silvestro, stante il livello di deficit al 3,8% su cui si basa quella Finanziaria da 24 miliardi, ben 16 dei quali appunto frutto di scostamento. E senza coperture. Finora l’Ue aveva taciuto. Standard&Poor’s ha fatto finta di nulla. Ma il 17 novembre arriva Moody’s. E non pare un caso che in vista dell’unica revisione che conta, poiché potrebbe declassare il nostro debito a speculativo, Bruxelles e Francoforte abbiano cominciato la tarantella. Diktat. Allusioni. Oppure frasi gettate come sassi nello stagno, esattamente pari a quella con cui Christine Lagarde ha tagliato corto sul nostro spread.

Attenzione, il cortocircuito di pareri fra alleati su tempi, contenuti e modi della Manovra ha già bruciato l’effetto placebo di S&P. E Lagarde ha operato da pompiere con quella frase sibillina, tutti lo sanno. E il ritracciamento del differenziale innescatosi da giovedì scorso lo conferma. Ma quali strumenti utilizzerà, in caso di blackout? E a quale prezzo per il nostro Paese, soprattutto? E attenzione alla variabile silenziosa. La Bank of Japan ha appena reso noto al mondo che non esiste più il suo put al gran casinò obbligazionario. Adesso, si naviga a vista. Nel pieno di una fiammata obbligazionaria con pochi precedenti. La Boj se la canta e se la suona, alzando e drasticamente le proiezioni inflazionistiche. Per l’anno in corso, il 2,5% di luglio è diventato 2,8% e tale è previsto anche per il 2024, a fronte dell’1,9% di soli tre mesi fa. Insomma, prezzi più alti. Più a lungo. Nella patria della deflazione. E soprattutto con l’addio all’1% come rigida guidance alla politica di controllo sulla curva del rendimento decennale e tramutato in mero riferimento, ecco che Tokyo decide di attrezzare il mondo a enorme laboratorio del dottor Frankenstein. Il mostro del Qe perenne, della free money e della monetizzazione del debito si rivolterà allo scienziato pazzo che lo ha generato?

Di fatto, la Boj deve aver visto gli ultimi sondaggi. Il tasso di approvazione del governo di Fumio Kishida crolla. Ed ecco che l’autorità monetaria decide di continuare a ballare, ma avvicinandosi all’uscita di sicurezza. Come dire, se qualcuno deve bruciarsi col cerino, meglio che sia il ministero delle Finanze. E quando una banca come Ubs decide di identificare il proprio report dedicato al board nipponico con un titolo simile – The BOJ has raised its yield cap without saying where it is -, c’è poco da stare allegri. E in effetti, il documento di politica monetaria non fa alcun riferimento ai futuri interventi sul mercato obbligazionario. Dal no bid che ha congelato ogni offerta che non fosse quella onnivora della stessa Boj al no one knows. Insomma, i principi cardine del quando, dove, come e se restano per la prima volta senza risposta. E, appunto, il mondo resta per la prima volta senza un chiaro, esplicito e dichiarato put da parte di una Banca centrale del G7. Il problema ulteriore? Lo mostra questo grafico.

Solo lunedì, il Tesoro Usa ha reso note le revisioni delle necessità di finanziamento. Dopo emissioni record per 1 trilione nel terzo trimestre, quelle per i tre mesi in corso e per i primi tre del 2024 saranno entrambe da 1,5 trilioni. Con cosa si troverà a fare i conti, un già inguaiato Treasury Usa, se il maggior detentore estero di debito statunitense proseguisse il delevarge che negli ultimi sei mesi ha generato un net negative di acquisti? Tokyo può sorprendere più della Fed. E questo deve far paura. Tanta.

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