Visto che sui giornali di ieri la notizia era confinata a ridosso di necrologi e previsioni meteo, meglio ristabilire qui il minimo sindacale di civiltà deontologica che la mia disgraziata professione ha dimenticato tanti anni fa. Più o meno attorno al 1992. La moglie e la figlia di Antonio Panzeri sono tonate libere. Revocati i domiciliari dalla Corte d’appello di Brescia, dopo che i magistrati di Bruxelles hanno rinunciato alla procedura di consegna. Insomma, c’è vita sul pianeta Qatargate. Ma non nel senso di scandalo del secolo che ci volevano vendere e ci hanno venduto fino a un mesetto fa. Giusto in tempo per coprire la fase finale dei Mondiali. Insomma, tutto in dirittura di oblio. Come la nuova ondata di Covid in Cina, dopo le polemiche per il ripristino a tempo di record dei controlli per chi arrivasse da quel Paese. Non serve più. Ora, c’è la guerra. C’è l’orologio dell’Apocalisse. Ma anche vermi e cavallette nel cibo, come se già non li mangiassimo da anni. E senza che nessuno di noi si fosse mai accorto, stante nomi scientifici a prova di vocabolario.



Domanda per il weekend: come mai, invece, nelle prime posizioni della classifica degli hashtag di Twitter, fra i termini destinati a divenire virali, non si trovano mai parole scabrose come salario o formule come tempo indeterminato? Ve lo siete mai chiesto? In tal senso, il ministro Valditara ha compiuto un vero e proprio autogol, poiché al fine di perorare la causa dei privati nella scuola, è riuscito a riesumare nientemeno che un concetto come le gabbie salariali, una sorta di brontosauro giuslavorista al pari della scala mobile. In compenso, grilli nel piatto e guerra in tv: un mix perfetto per catturare l’attenzione e tenere buono il parco buoi. Chi ha più bisogno del Qatargate o della 92ma variante del Covid per ammansire il popolino?



Ora poi inizia Sanremo con Volodymir Zelensky ospite d’onore e per una settimana tutto potrà accadere: conta solo il televoto. E la lacrimuccia per Kiev. Tutt’intorno, la realtà. Sempre più dissimulata. L’inflazione? Roba da poco, se paragonata al rischio atomico. I tassi in rialzo? Nessuno si preoccupa del mutuo, quando si teme che Putin la casa te la polverizzi con un missile. La recessione e i licenziamenti di massa, pronti a varcare l’Atlantico? Chi ci pensa, quando fra non molto le televisioni cominceranno a bombardare con una programmazione ad hoc, ripescando Rambo che combatte i russi crudeli in Afghanistan o Kevin Costner che scongiura la Baia dei Porci in Thirteen days? Ma questo grafico ci dice che qualcosa potrebbe rompersi, in fretta, nel mondo reale.



Dopo aver fatto sgonfiare la bolla dei prezzi immobiliari, cresciuta a dismisura in tandem con il bilancio Bce e in virtù dei cicli strutturali di Qe, la Germania sta vivendo il grande freddo dell’edilizia. E non per il colpo di coda dell’inverno. Un comparto il cui calo viene stimato, a bocce ferme e in maniera prospettica, pari allo 0,5% del Pil. Un bel drenaggio, stante la prospettiva di recessione o quantomeno netto rallentamento. Certo, il prossimo indice Ifo potrebbe raccontarci di industrie energivore in grande ripresa produttiva, grazie ai mesi invernali più miti del previsto e ai prezzi in calo ad Amsterdam. Ma attenzione a questo brutto dato, accompagnato da uno ancora peggiore rispetto a investimenti e ordini del comparto, come mostra questo altro grafico.

Perché se la Fed non sarà attentissima nel gestire il Qt da qui all’estate e prima del ciclo di nuovo taglio dei tassi, il prossimo step sarà un’alluvione di Mbs sul mercato. Col settore immobiliare Usa già in crisi nera. E qui da noi? Il superbonus ha già smesso di fare notizia e danni, sia a livello di conti pubblici che di rischio insolvenze e crediti incagliati? Sicuramente sarà soltanto un falso allarme, l’ennesimo. Sicuramente la Bce tamponerà tutto. Ma i segnali, i canarini che tossiscono nella miniera non ci sono soltanto in Germania. Uno, enorme, sta cominciando a respirare affannosamente a livello globale. E anche qui in Italia.

Il problema? Finora nessuno ha colto il sintomo, ritenendolo invece una sorta di canto propiziatorio – magari un po’ rauco – di uscita dalla crisi. Nei giorni scorsi avrete letto del successone registrato dall’emissione del bond green di Eni, richieste per 10 miliardi da 300.000 investitori. Non male per un collocamento partito da 1 miliardo, passato a tempo di record a 2 miliardi e poi chiuso trionfalmente anzitempo. Non male nemmeno il 4,30% annuo lordo corrisposto. E che dire di Tim, a sua volta fresca di un collocamento obbligazionario da 850 milioni. Il tasso offerto? Qualcosa come il 6,785% contro l’1,7% di un anno fa. Un anno fa. D’altronde quando hai 2 miliardi di debito in scadenza quest’anno e 9 entro il 2024, fare gli schizzinosi con i rendimenti non è concesso. Soprattutto quando non si sa cos’hanno in mente le Banche centrali, in fatto di tassi di interesse. E quindi di costi del finanziamento. E il grafico parla chiaro. Chiarissimo.

L’anno appena cominciato non ha precedenti: siamo di fronte a un vero e proprio wall of maturity nel pieno di un ciclo di rialzo del costo del denaro. Guarda caso, sia la Fed che la Bce cominciano a far trapelare segnali di un rallentamento del ritmo dei loro interventi. Casualmente, l’inflazione sta gradualmente sparendo dai radar dei media. Casualmente, i futures prezzano una Federal Reserve che a Jackson Hole confermerà il reverse: signori, si taglia. Sicuri che un giochino del genere possa andare in porto in maniera indolore?

Nel settembre del 2019, la crisi repo che riportò in campo la Fed dopo 11 anni in panchina e di mercato col pilota automatico lasciò a terra qualche cadavere da rischio di controparte e interbancario congelato. E oggi qualcuno andrà fuori controllo nel rendimento da corrispondere per riuscire a finanziarsi e ripagare il debito in scadenza? E poi, guardiamo al quadro d’insieme: se anche il 2023 si concludesse per il meglio e senza una catena di default corporate, occorre entrare nell’ottica di un mondo che taglia costi e personale e torna sul mercato unicamente per finanziare il debito pregresso. Addio CapEx, addio ricerca, addio sviluppo, addio assunzioni. Di fatto, tutto questo in un quadro recessivo per l’economia, testimoniato dai lay-offs di massa già annunciati da grandi corporation come Amazon e Google.

La realtà macro davvero non conta più nulla? I posti di lavoro e i salari della gente, davvero sono ormai danni collaterali per la sopravvivenza di un regime di leverage e indebitamento senza via d’uscita? Quanto può reggere una gabbietta per criceti simile, prima che qualcuno decida di fermare la ruota? Tutto si basa su denaro fasullo creato da un impulso elettronico. Ma il debito è reale. E costa caro. Persino se lo si vuole imbellettare con ratio domanda/offerta stellari e chiusure anticipate dei collocamenti. Persino se si ricorre ancora all’ormai consunto maquillage Esg.

Siamo al finale di partita, perché è tutto e solo finanza. Tutto e solo spread, yield, maturity, duration. Le Banche centrali si fermeranno, quell’ultimo grafico ne è la conferma chiara. A meno che non si cerchi un incidente controllato senza precedenti. A quel punto, però, scorrerà il sangue. Forse per questo occorre che la gente sia occupata dalla Terza guerra mondiale e dai grilli nel piatto. O, nel nostro caso, dal Festival di Sanremo.

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