E come volevasi dimostrare, insieme all’autunno sono arrivati i dazi Usa contro l’Europa. Nel momento macro peggiore, stante l’ennesima dato shock giunto dall’industria tedesca. Ma, paradossalmente, anche a nuovo Qe già annunciato dalla Bce. Altra cosa, infatti, sarebbe stato se la Wto avesse dato via libera alla ritorsione commerciale di Washington a luglio, quando ancora Mario Draghi stava guerreggiando all’interno del board e Olli Rehn non aveva rilasciato l’intervista sgombra-tensioni al Wall Street Journal di Ferragosto. Insomma, come vi avevo anticipato, lo spostamento del focus statunitense verso il Vecchio Continente nel conflitto commerciale globale, così oggi mi sento di dirvi che la parola d’ordine deve essere calma.
Da qui al 18 ottobre, data di entrata in vigore dei nuovi dazi imposti dall’America su molti nostri prodotti alimentari di eccellenza, c’è tempo. Un’enormità di tempo. E gli statunitensi, per quanto la vulgata li dipinga come dei rozzi Rambo capaci solo di mostrare i muscoli e sparare razzi, l’arte della diplomazia sanno invece utilizzarla da maestri. Henry Kissinger docet. Certi loro eccessi verbali e certi scatti d’ira sono solo parte del copione. D’altronde, lo stesso Mike Pompeo, si è affrettato a sottolineare, pochi istanti dopo aver confermato l’entrata in vigore delle nuove tariffe, che Washington intende sedersi a un tavolo con Bruxelles prima del 18 ottobre. Insomma, alzo la posta per trattare alla pari. O, magari, per ottenere di più, visto che il momento contingente me lo impone.
La disputa con la Cina, come vi ho già detto, è servita per due anni a mantenere ai massimi di valutazione un mercato che, in realtà, a livello di prezzi non si è mosso da dov’era nel gennaio 2018: non ha incorporato nulla delle mosse geopolitiche, estreme, volute dall’amministrazione Usa. Ma, come sapete, ora si è arrivati al punto di non ritorno: se entrasse davvero in vigore il salto di qualità dell’ampliamento ad ampio spettro delle nuove tariffe, la Cina si vedrebbe costretta a svalutare lo yuan in maniera pericolosissima. Ma, d’altro canto, Washington vedrebbe i suoi consumatori cominciare a pagare in maniera salata l’aumento del costo della vita, al netto dell’enorme “carrello delle spesa” di beni di largo consumo che verrebbe colpito.
Signori, in America il Grana Padano lo mangiano a New York e Los Angeles, il resto del Paese fa i conti con gli aumenti del made in China che si trova sugli scaffali di Walmart: mettiamo per favore le cose nella giusta prospettiva. Occorreva quindi cambiare focus. Anche perché, la battaglia con Pechino è stata pressoché vinta. E sapete perché? Ce lo mostrano questi due grafici, il primo dei quali conferma con dati dell’altro giorno la criticità che vi sottolineo da sempre: la porkflation che la Cina non può permettersi, al netto della grana Hong Kong in pieno svolgimento.
I prezzi sono talmente fuori controllo, a causa dell’epidemia di febbre suina che ha devastato gli allevamenti, da aver convinto il Governo a mettere mano alle riserve strategiche di carne per cercare di calmierare i prezzi. I quali, solo per quella di suino, hanno subito un aumento del 38% in agosto e dell’84% in settembre. Insostenibile. E il secondo grafico ci dice, implicitamente e al netto di capitoli più strategici come il 5G, quale potrebbe essere una merce di scambio dell’Ue per cercare di tamponare l’emergenza tariffaria con gli Usa, da qui al 18 ottobre: ad esempio, promettere di non fornire carne di suino alla Cina ancora per un po’. O di farlo con il contagocce, in modo da tenere Pechino sulla corda.
Un ricatto? Certo, la politica è anche ricatto. E sapete quanto è costata finora l’emergenza delle febbre suina alla Cina? Fino a 140 miliardi di dollari, più del danno inflitto da due anni di disputa commerciale con Washington. Fonte Caixin, quindi fonte cinese. Ora, vogliamo arrivare a pensare che, essendosi sviluppata dal confine con il Vietnam, quell’epidemia sia stata – diciamo – “stimolata” da qualche agente patogeno esterno? E chi può saperlo, nella vita e soprattutto in guerra possono accadere tante cose: anche che un’epidemia colga alla sprovvista una potenza della pianificazione e del controllo totale come la Cina.
Ora sta all’Europa capire in quale momento storico si trova e fare le sue scelte: se non sarà in grado di trovare una soluzione unica, causa interessi troppo confliggenti fra i vari Stati membri, allora ognuno pensi per sé. E il fatto che l’Italia, in questa ipotesi estrema, venga rappresentata dal ministro Di Maio, scusate ma mi fa venire voglia di arrendermi a prescindere e sventolare preventivamente bandiera bianca, offrendomi come prigioniero. Anche perché, per quanto stia flettendo i muscoli, l’America ha i suoi talloni d’Achille in questo momento. Nemmeno troppo nascosti, oltretutto. Guardate questi due grafici e capirete subito quali siano i più evidenti, senza mai dimenticare che gli Usa sono ormai ufficialmente in campagna elettorale per le presidenziali dell’anno prossimo e che da febbraio in poi si comincerà a fare sul serio con le primarie.
L’ultimo dato sull’ISM manifatturiero parla chiaro e lo fa non soltanto rispetto all’ipotesi di ingresso anzitempo in recessione: solitamente, la sua lettura anticipa di un paio di mesi gli sviluppi. E, soprattutto, nel trend storico vede l’indice Standard&Poor’s 500 andare in tandem pressoché perfetto. Ecco, se la statistica non è un’opinione, entro un paio di mesi il trend che dovrebbe prendere l’indice benchmark della Borsa Usa è da sprofondo rosso. Il secondo grafico, poi, conferma ancora di più la tendenza, poiché ci mostra come le televisioni americane abbiano cominciato a ignorare totalmente nei loro messaggi all’opinione pubblica – veicolati attraverso i programmi, i tg e gli spot – l’ambito manifatturiero e si siano concentrati unicamente sui consumi. Nella fattispecie, sulla giostra di false possibilità e indebitamento a vita attraverso il credito al consumo e la richiesta di prestiti sempre più concentrati nella fascia subprime. Insomma, il miraggio del falso benessere percepito, al fine di nascondere agli occhi del Paese la manifattura – ovvero, la sua spina dorsale – che sprofonda.
Washington irradia forza, ma vive in contemporanea anche una profonda debolezza, non fosse altro per il grado di spaccatura all’interno del potere reale, fra amministrazione e Deep State, quei corpi intermedi che la telenovela dell’impeachment – emersa dal nulla e con timing tutt’altro che casuale – ora farà uscire allo scoperto come pesci affamati in un acquario. Serve scaltrezza, esperienza e pelo sullo stomaco per trattare con un’America simile. Ma, se si è in grado di farlo, si potrebbero trarre vantaggi insperati. E, forse, senza precedenti. Servirebbe però un Governo degno di questo nome, invece disponiamo unicamente di una coalizione elettorale di disperati in fieri che momentaneamente è accampata a palazzo Chigi.
Mai come oggi, fidatevi di me, c’è da sperare che l’Italia sia ancora dotata di un residuo dei suoi mitologici poteri forti. Cui, citando l’ex ministro dell’Interno, affidare silenziosi ma operativi pieni poteri di trattativa. Senza che il Copasir, come pare stia già accedendo, si affanni con la presunta necessità di trasparenza e crei polveroni, cercando troppi peli nell’uovo in favore di narrativa mediatica. Se si chiamano servizi segreti, d’altronde, ci sarà un perché. E sapete perché sono certo che l’America abbia lasciato ben più di una porta aperta al nostro Paese? Pasta, olio e prosecco sono stati esentati dai dazi in vigore dal 18 ottobre. Direte voi, però il prosciutto verrà colpito. Quello cotto, insieme agli altri insaccati. Non il crudo di Parma o San Daniele, le nostre eccellenze dell’export di settore negli Stati Uniti. Quelli, codici doganali alla mano, sono stati stranamente esentati.
Messaggi in codice, insomma. Da cogliere al volo, come i malesseri e i bronci delle amanti che si sentono trascurate. O, peggio, tradite.