Perché ieri la Fed ha operato un taglio emergenziale di 50 punti base, quasi a volere sostenere gli indici azionari, dopo la delusione parziale arrivata dal G7 e dalla sua conference call sulla risposta economica da dare alla crisi epidemica? Davvero la situazione è così grave da richiedere un intervento immediato, nonostante il rimbalzo record di Wall Street di sole 24 ore prima? Davvero non si poteva attendere la riunione del Fomc del 18 marzo e operare in via – per così dire – ordinaria? Andiamo con ordine e partiamo da questo grafico, il quale ci mostra cosa sia accaduto alla Fed di New York poco prima della decisione della casamadre: fra asta repo e term, infatti, la Banca centrale aveva immesso nel sistema qualcosa come 180 miliardi di dollari, 108,6 dei quali riconducibili appunto solo all’operazione sul brevissimo termine.
Si tratta della prima asta repo in sovra-iscrizione dallo scorso ottobre, a cui si è unita una ratio di 3.5x di domanda superiore all’offerta anche per la prima asta term del mese di marzo, ovvero da quando l’ammontare massimo disponibile è sceso da 25 a 20 miliardi. Insomma, il mercato aveva mandato un segnale di quelli inequivocabili. Oltretutto, il giorno seguente a un rialzo record.
E veniamo appunto alla giornata spartiacque di lunedì. Al netto di buybacks strutturali ed espansione dei multipli di utile per azione da record, se qualcuno avesse avuto ancora dei dubbi residui rispetto a cosa stia muovendo realmente i mercati azionari, è stato ampiamente soddisfatto da quanto accaduto nelle ultime 72 ore. Ovvero, da quando i tonfi degli indici in corrispondenza all’allargarsi globale a macchia d’olio dei casi di coronavirus hanno innescato una serie ininterrotta di dichiarazioni di sostegno da parte di organismi nazionali e sovranazionali: Fed, Bank of Japan, Pboc e infine Fmi, Banca Mondiale e buon ultima la Bce hanno tutti assicurato il loro appoggio. Tradotto, liquidità. Ed ecco che questo grafico trasfigura e si declina nella rappresentazione del proverbiale grido Il re è nudo: il proxy, infatti, non necessita di azioni concrete già applicate, non attende l’uscita dai caveau di furgoni blindati carichi di contanti in direzione Wall Street o Shanghai. In quanto tale, prezza in anticipo la reazione del mercato a quanto annunciato.
In primis, in base ai futures euro-dollaro che scontano le possibili mosse delle Banche centrali – leggi, la Fed – in fatto di tassi di interesse. Ecco spiegato, in concreto, il rimbalzo da record registrato dalla Borsa Usa nella prima giornata di contrattazioni della settimana. Un qualcosa di senza precedenti per il Dow Jones, visto che calcolando l’avanzamento dai minimi overnight il guadagno totale è stato di 1850 punti, mentre come mostra questo grafico, la chiusura a 1.293 punti ha un precedente storico decisamente impegnativo, quantomeno a livello di interpretazione: per trovare un point gain simile occorre tornare al marzo 2009, quando fu annunciato il Qe 1, quello lanciato dalla Fed per ricostruire dalla macerie post-Lehman.
Ma c’è dell’altro, per gli amanti delle statistiche. E, in questo caso, anche degli indicatori tecnici. Nella giornata della grande riscossa di Wall Street, infatti, è tornato a farsi sentire l’Hindenburg Omen, ovvero un modello che segnala le maggiori probabilità di crash azionario o severa correzione in vista, basandosi su una correlazione fra titoli che registrano nuovi massimi e nuovi minimi nella serie a 52 settimane. Nulla di certificato, ovviamente. Anche perché, per arrivare a un indicatore di Hindenburg Omen confermato, sintomo di rischio che si sta aggravando e avvicinando, occorre che il segnale si ripresenti dopo 36 sedute dal primo. Come si nota dal grafico, l’ultimo palesarsi di questo modello prima di quello appena registrato era avvenuto a metà luglio dello scorso anno. E il 17 settembre, la crisi del mercato repo overnight mandò alle stelle i tassi dell’interbancario Usa e costrinse la Fed a tornare in operatività di acquisto diretta dopo 10 anni di assenza, in quella che venne definita una situazione temporanea dovuta alle scadenze di fine trimestre.
Siamo a marzo e la Fed nell’ultimo board ha confermato che quell’emergenza transitoria resterà tale almeno fino a fine aprile: il tutto, sottolineando come quella decisione venne presa prima che la crisi da coronavirus assumesse i profili di contagio globale attuale. Probabilmente, anche quella scadenza subirà un’ulteriore proroga, non fosse altro per il risultato delle due aste di ieri mattina.
Davanti a noi abbiamo un mese e mezzo di pace, stante il modello? Ovviamente no. O, quantomeno, sarebbe folle basare un trading unicamente su quell’indicatore. Come dimostrato dal secondo grafico, è altra la variabile dalla quale dipende il mercato azionario. Con un problema in più, rispetto alle crisi meramente finanziarie come quella dello scorso settembre: l’economia reale sta precipitando in recessione a velocità con pochi precedenti, stante la zavorra cinese sui Pil. Il mitologico mercato, quello che ha appena festeggiato la grande riscossa di Wall Street, anche questa volta potrà permettersi di ignorare la realtà macro?
Ieri mattina, tutto sembrava nelle mani di Steven Mnuchin, segretario al Tesoro Usa che ha guidato i lavori del G7, rispetto al quale le aspettative dei trader erano addirittura per un’accordo di Shanghai 2.0, ovvero la replica di quanto deciso globalmente nel febbraio 2016 e che riuscì a garantire quasi due anni di rally azionario e stroncare sul nascere la prima mini-recessione cinese. Speranze deluse dalle solite, ritrite formule con cui si garantivano interventi tempestivi e vigilanza costante. Non a caso, all’ora di pranzo i futures di Wall Street segnalavano un’apertura sotto di 200 punti e l’Europa cominciava a rimangiarsi i guadagni del mattino. Poi, la mossa (disperata) della Fed. La quale, ora, dovrà fare i conti con due dinamiche di rischio legate proprio alla scelta di taglio emergenziale compiuta. Primo, inviare al mercato un pericoloso segnale riguardo la veridicità del livello attuale degli indici, almeno per quanto riguardo il valore sottostante. Secondo, il fatto che in questo modo la Fed venga vista come un’istituzione intenzionata a supportare bolle sugli assets.
In effetti, 36 sedute di contrattazioni paiono sufficienti affinché gli investitori decidano se quanto verrà deciso da Jerome Powell sia stata un bluff imposto dall’emergenza oppure no. Una cosa è certa: il segnale arrivato dalla Fed di New York prima che aprissero le contrattazioni gridava chiaro e tondo una nuova emergenza sulla liquidità. Per quanto quei 50 punti base di taglio potranno placarne il bisogno? Se sarà per poco, a rischio c’è la stessa credibilità strutturale della stamperia globale. E se si rompe il giocattolo del Qe perenne, in piena crisi macro da coronavirus, saranno guai. Quasi senza precedenti.