Le valanghe più pericolose e distruttive, si sa, sono quelle che partono in sordina, silenziose. La proverbiale “palla di neve”, la quale comincia a rotolare in maniera apparentemente innocua, ma che lungo il percorso che la porta a valle si carica di energia cinetica, aumenta di volume e velocità. Se non si è conoscitori della montagna, ci si accorge del pericolo solo quando l’unica opzione rimasta sul tappeto è quella della limitazione dei danni. Sui mercati sta accadendo la stessa cosa, più o meno. Nel mio articolo di martedì evidenziavo come, al netto delle tensioni finanziarie legate alla crisi sanitaria da coronavirus, il vero canarino nella miniera da tenere sott’occhio rimanesse Aramco, ovvero il gigante petrolifero saudita fresco di collocamento alla Borsa di Ryad e destinato a diventare il polmone di finanziamento del sempre crescente deficit saudita da crollo delle valutazioni petrolifere. Insomma, la via finanziaria per riesumare lo status globale del petrodollaro.
Dopo la fiammata dei primi giorni dall’Ipo, il titolo è cominciato a scendere, tanto da spingere i sauditi a esercitare la cosiddetta opzione green shoe. Nuove azioni sul mercato, in modo da gonfiare la valutazione finale del collocamento e, di fatto, sostenere il titolo. Insomma, un segnale non certo di forza. E il problema sostanziale legato agli eventuali guai finanziari sauditi per un fallimento dell’Ipo del secolo è altresì noto: il Fondo sovrano di Ryad è munifico investitore in decine di holding e strumenti di investimento, primo dei quali il mega-conglomerato giapponese Softbank, a sua volta controllore – fra gli altri – di Uber e WeWork. Bene, il calo del 20% del consumo petrolifero cinese connesso allo stop forzato delle attività economiche non poteva che riflettersi direttamente su quegli equilibri. E qualcosa, in tempi rapidi ma silenziosamente, comincia a disvelarsi.
Martedì sera, infatti, il Financial Times rendeva noto come il numero uno di Softbank negli Usa, Michael Ronen, ex dirigente di Goldman Sachs, stesse trattando la sua buonuscita anticipata dal gruppo nipponico. Il motivo del suo addio? “Preoccupazioni legate ad alcuni problemi”, la risposta sibillina fornita al quotidiano della City. Issues, la formula utilizzata. In sé, nulla che debba far gridare allo scandalo: i manager, anche di alto livello, vanno e vengono nel mondo degli affari. Ma questa dipartita, invece, ha il sapore dell’abbandono della nave prima dello schianto contro l’iceberg. Perché Ronen ha detto chiaramente che la decisione di andarsene è maturata dopo aver comunicato queste sue preoccupazioni al management: cosa può essere accaduto di così grave da spingerlo all’addio?
Semplice, al netto delle retorica ispirata e trionfante del patron Masa Son, Softbank non è riuscita ad attrarre nessun nuovo investitore esterno per il suo secondo veicolo di investimento,il Vision Fund 2. Si era parlato, non più tardi dell’estate 2019, dell’interessamento addirittura di Apple, Microsoft e National Bank of Kazakhstan, grossi nomi per un progetto ambizioso, visto che il nuovo fondo doveva partire con una disponibilità di investimento da 108 miliardi di dollari. Senza contare il Fondo sovrano saudita, appunto, a sua volta primo investitore nel Vision Fund originario, quello rimasto acciaccato dai tonfi di Uber e WeWork, quest’ultima addirittura costretta all’umiliante rinvio sine die del tanto declamato (e necessario, a livello di fondi) collocamento a Wall Street lo scorso agosto. E sempre stando al Financial Times, Ryad non solo avrebbe imparato la lezione del Vision Fund, evitando di esporsi nell’avventura del fondo gemello, ma avrebbe addirittura cominciato una discussione riguardo la volontà di proseguire la propria strategia di investimento così massiva. In parole povere, tagliare il superfluo per evitare esposizioni miliardarie a possibili, nuovi buchi nell’acqua.
E la riprova di questo nuovo atteggiamento di Ryad è arrivata anch’essa nella giornata di martedì, dopo che al culmine di un rally borsistico di 4 giorni in cui il titolo aveva guadagnato oltre il 35%, Tesla sfondava per la prima volta quota 900 dollari per azione. Direte voi, cosa c’entra l’andamento da record dell’avanguardistica azienda produttrice di auto elettriche con l’Arabia Saudita e il suo fondo sovrano, strettamente legati al “vecchio” petrolio? Anche in questo caso, c’entra eccome. Un segnale che è superiore a un mero proxy, quasi il proverbiale canarino nella miniera. E, potenzialmente, la palla di neve che diventa valanga. Due giorni fa, infatti, la Sec statunitense ha certificato e reso pubblici gli investimenti dei vari soggetti tracciati al 31 dicembre scorso, fra cui appunto il Public Investment Fund saudita. E sapete cosa si è scoperto, su dati ufficiali Sec e di InsiderScore? Che Ryad ha venduto lo scorso anno il 99,5% di tutti i titoli Tesla che aveva in portafoglio, rimanendo con appena 39mila azioni dalle oltre 8,2 milioni in suo possesso alla fine del terzo trimestre.
Al prezzo raggiunto da Tesla martedì scorso, quei titoli venduti avevano un controvalore di oltre 7 miliardi di dollari. Insomma, il Fondo sovrano saudita ha venduto prima di un rally di inizio anno che ha garantito oltre il +35% solo negli ultimi quattro giorni di contrattazioni, +13% solo martedì. E qui, signori, le ipotesi sul tavolo sono soltanto tre. Primo, la casa reale saudita ha dei consulenti finanziari che sono un disastro totale, roba degna di Renato Pozzetto e la sua Canistracci Oil in Mia moglie è una strega. Tenderei a escluderlo. Se invece fosse così, immagino che siano già in viaggio verso la forca. Secondo, al contrario, i consiglieri finanziari del principe ereditario sono molto più scaltri degli altri e hanno preferito scendere dalla giostra di Tesla con largo anticipo, rimettendoci qualcosa, ma essendo certi di aver massimizzato tutto il proprio pacchetto a un prezzo comunque decisamente alto, almeno stando ai dati macro e all’esposizione a leva da mani nei capelli di Tesla. E, soprattutto, anticipando la crisi da coronavirus, la quale non potrà che aggravare la situazione economica generale della Cina e del mondo, mercato auto compreso. Anzi, in testa. Insomma, a Ryad hanno capito che Tesla è arrivata al rally finale da mega short squeeze tipico della bolle e, per non correre rischi, hanno scaricato e capitalizzato il loro investimento.
Terza e ultima ipotesi, il Fondo sovrano saudita ha operato in quel modo per necessità stringente di liquidità. Insomma, ha venduto il titolo più “ricco” e liquido in paniere per necessità immediata di capitale, magari legata alle perdite in cui si è incorsi per i tracolli di WeWork e Uber in seno all’investimento in Softbank. Comunque sia, un pessimo segnale, visto che giunge da un Paese che fino a cinque anni fa era ancora ritenuto l’investitore più munifico del mondo, gente che utilizzava i biglietti da 100 dollari per accendere le sigarette. Insomma, vendere – pur sapendo che il titolo sarebbe salito ancora – per necessità stringente di fare cassa: qualcosa, se così stessero le cose, davvero non va dalle parti di Ryad. E qualcosa di molto, molto serio.
Signori, sottotraccia il mercato sta muovendosi e in direzioni pericolose. Molto più pericolose di quanto gli andamenti ufficiali degli indici ci dicano. Ma lo sapete, occorre sempre guardare sotto il pelo dell’acqua, operare da sonar ed ecoscandaglio, se si vogliono evitare gli iceberg. Finito il tempo della destabilizzazione e quello della dissimulazione, siamo entrati nei giorni del “grande inganno”: ovvero, la nuova legge è che nulla in realtà è come appare. Cosa pensate, che il caos legato ai caucus dell’Iowa e alla nuova app per il conteggio dei voti, sia stato soltanto un incidente dovuto alla sperimentazione di una nuova tecnologia? Nel Paese che punta alla conquista di Marte, non si riesce a far funzionare un’applicazione per contare le preferenze di 200mila persone e sancire un vincitore certo? O, forse, non potendo sfruttare più lo spauracchio degli hacker russi, ci si sta portando avanti con il lavorio di destabilizzazione della fiducia dell’elettorato nei confronti del sistema, in vista del 3 novembre? Un bello stress test sociale, insomma. L’ennesimo.
O ancora, ad esempio e facendo ricorso alla cronaca politica italiana, pensate che la caduta di stile delle Sardine, beccate a far visita alla Fondazione dei Benetton e di Oliviero Toscani, sia stato soltanto un incidente di percorso per troppo entusiasmo partecipativo? Se c’è una cosa che Oliviero Toscani conosce alla perfezione sono i meccanismi della comunicazione. Soprattutto quella estrema, la provocazione come mezzo per sollecitare reazioni. Con quella foto, di fatto ha servito su un piatto d’argento al Pd la testa di un movimento che dopo le regionali in Emilia-Romagna rischiava di tramutarsi, da alleato fondamentale per la vittoria di Bonaccini, nell’ennesima rogna interna. Oltretutto, con il forte rischio che andassero – almeno in parte – a formare l’esercito di base di un partito personale di Giuseppe Conte, lesto nell’invitarli per un incontro.
Ci sarà ancora quell’incontro, al netto dello “scandalo” fotografico e della scissione già in atto nel movimento delle Sardine, destinate a finire nell’archivio inglorioso della Seconda Repubblica con velocità siderale? Missione compiuta, insomma. E il do ut des nell’operazione, dove sarebbe? Dai che lo sapete, su. Meditate gente, perché la posta si alza. E le trappole sono ovunque.