Cos’hanno in comune Donald Trump e Bitcoin? Entrambi sono stati normalizzati. Prima di caucus e primarie, nessuno pensava che l’ex Presidente avrebbe potuto superare i molti scogli giudiziari che si frapponevano fra lui e la candidatura. Allo stesso modo, Bitcoin era visto come il cavallo pazzo, la DeFi money in grado di porsi come alternativa al regime di valute fiat manipolate dal Qe-perenne. Ora, invece, tutto è cambiato. Nessuno osa più fiatare rispetto alla legittimità della corsa di Donald Trump, nonostante mesi e mesi di narrativa sul golpe in sedicesimi a Capitol Hill. Allo stesso modo, la nascita dell’Etf di Bitcoin ha di fatto tramutato la DeFi money in una TradFi money, solamente un po’ più iconoclasta. E molto pop.



Guardate il grafico. Dal lancio dell’Etf, due settimane fa, Bitcoin ha perso il 21% nella più classica delle spirali auto-alimentanti da sell the news. Chi sa come operare, certamente sta surfando. Ma i cosiddetti normies potrebbero già essersi fatti male.

Ora date un’occhiata a questi altri due grafici. Esattamente come Bitcoin è cominciato a calare dopo il lancio dell’Etf, così il titolo di Coinbase ha perso quota. E a oggi perde oltre il 30%.<



Da quando, però? Lo mostra la seconda immagine: da quando gli insiders hanno scaricato azioni al loro massimo. Insomma, a San Francisco sanno cosa sia il tempismo. Venduto a 186 dollari per azione. Oggi pascola in area 120 dollari. L’arco temporale? Perfettamente anticipatorio rispetto al lancio dell’Etf di Bitcoin. D’altronde, Coinbase ha come core business lo scambio di beni digitali. Insomma, la valuta che doveva seppellire le Banche centrali, di fatto sta rientrando perfettamente nello schema di manipolazione tipico degli assets che dipendono direttamente proprio da dinamiche controllate dalla Fed.



Certo, Bitcoin vanta ancora un +70% dai minimi del 2023. E i troppi de profundis recitati a vanvera spingono alla cautela, prima di celebrare messe di suffragio ex ante. Ma il fatto che il lancio dell’Etf abbia occupato militarmente i media, mentre il sell the news event sia tornato a stazionare negli spazi per addetti ai lavori, ci dice come apparentemente tutto rientri in un preciso playbook. Esattamente come la marcia da schiacciasassi di Donald Trump, da uno Stato all’altro. Da qui a novembre, forse, i due protagonisti di questa parabola potrebbero generare l’hot spot necessario alla Fed. E all’establishment. Per chiudere i conti.

Se l’Etf di Bitcoin generasse perdite e investitori in rovina, magari in un flash crash da prima pagina, quale migliore pubblicità negativa per l’intero universo cripto non regolamentato? E se Donald Trump dicesse una parola di troppo sui tanti temi incendiari in agenda, spingendo a sua volta il mercato a una prezzatura da esplosione dei cds, quale elettroshock subirebbe l’istinto di sopravvivenza economica dell’americano medio, ancorché repubblicano?

Attenzione a questi periodi di transizione. È in questi che si scrivono i copioni. In silenzio. Per questo, ci sono storie che vale la pena raccontare. Altre che, invece, è obbligatorio raccontare. Ecco a voi una di quelle appartenenti alla seconda categoria.

Ora, chi mi segue sa che da tempo sostengo come uno dei contrafforti di mercato – insieme ai buybacks e alla certezza di Banche centrali in modalità last resort – siano gli short squeezes. I quali, di fatto, si alimentano proprio della certezza di successo garantita dai primi due. Perché signori, chi nell’ultimo anno è andato short e ha perso non è un cretino, quantomeno a livello di analisi. Semplicemente ingenuo. Sperava che il banco non fosse truccato del tutto. Non a caso, dopo trimestri di lipstick on a pig per supportare la narrativa del soft landing, oggi si sospira a bassa voce di recessione. Negli ultimi due giorni gli short squeezes sono stati addirittura epici. Ma, soprattutto, molti cosiddetti daytraders, la clientela retail del trading online, hanno visto comparire nella loro casella di posta una notifica del broker, relativa appunto alla richiesta di andare short: rifiutata.

Al centro della vicenda, EquiLend, una fintech che per sua stessa boriosa ammissione processa ogni mese trilioni di controvalore in transazioni di prestito titoli. Di fatto, un facilitatore di short. E mentre alcuni dei titoli immondizia volavano in cielo e, giustamente, il daytrader medio si preparava a usufruire del conseguente effetto Icaro, EquiLend veniva colpita da un attacco hacker che bloccava proprio… la possibilità di andare short!

La stranezza, al netto di una situazione geopolitica che rende la cybersecurity un alibi perfetto, al pari del mal di testa femminile? Il timing. Ovvero, il guasto è capitato subito dopo l’annuncio cinese di stop alle vendite allo scoperto e, soprattutto, dopo la vendita della stessa EquiLend al fondo di private equity Welsh, Carson, Anderson & Stowe. La settimana scorsa la vendita, il 22 gennaio il blackout su parte del sistema. Quello che regola le transazioni sugli shorts. Una sfortuna, visto che EquiLend opera NGT, una piattaforma di security lending a prova di bomba che, appunto, finora ha gestito senza un plissé 2,4 trilioni di transazioni al mese. Ma ciò che conta davvero, è la proprietà di EquiLend. Anzi, l’ex proprietà: Bank of America, BlackRock, Credit Suisse, Goldman Sachs, JPMorgan, Morgan Stanley, National Bank of Canada, Northern Trust, State Street e Ubs.

Non vi basta? Date un’occhiata a questo ultimo grafico, tanto per capire cosa significhi un mondo in cui corporations possono acquistare e vendere altre corporations. E detenerne il controllo.

Quando ti vietano di andare short sulle equities, lo fai su quello che puoi. Mica puoi restare con la voglia, no? Caso strano, nel mirino di massa dei rifiutati di EquiLend è finito Bitcoin. Mere coincidenze, ovviamente. Il Sistema è sano. E l’unico nemico da sconfiggere è l’inflazione da Houthi. L’importante è crederci. Anzi, l’importante è che voi ci crediate. Nel frattempo, tutt’intorno accade questo.

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