Di cosa ha parlato Beppe Grillo per oltre due ore con l’ambasciatore cinese lo scorso weekend, salvo poi recarsi a colloquio con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio e tornare per altre due ore dalla feluca del Dragone? Domanda interessante, la quale meriterebbe una risposta precisa. E, soprattutto, una discussione seria e nel merito, invece che le solite accuse strumentali da propaganda elettorale. Che il Movimento 5 Stelle abbia un feeling con Pechino non stupisce: dopo aver preso posizione su tutto, spesso perdendo l’occasione d’oro per tacere, l’unico angolo della geopolitica mondiale che ha visto i grillini totalmente silenti è infatti la rivolta in atto a Hong Kong. Inoltre, il memorandum d’intenti relativo all’adesione italiana al progetto della Nuova Via della Seta è stato più volte rivendicato con orgoglio da Luigi Di Maio, dopo che la Lega – fiutata l’aria – l’ha disconosciuto e criticato, nonostante sia stato un sottosegretario del partito di Salvini a gestire l’intera vicenda. Almeno fino alla firma ufficiale della scorsa primavera a Roma.



Legittimo, per carità. Negare che Pechino sia player internazionale di prima grandezza, equivale a sprofondare nel ridicolo: non si può ignorarlo, questo è chiaro. Certo, essendo Paese integrante della Nato e storico alleato statunitense, occorrerebbe un distanziamento maggiore, se non una netta contrapposizione. Ma, anche in questo caso, parliamoci chiaro: gli Usa hanno imbastito un conflitto commerciale da barzelletta soltanto per costringere la Fed a riattivare la stamperia e consentire a Wall Street di beneficiare della propaganda mediatica per orientare a proprio piacimento gli algoritmi (e, quindi, i corsi azionari). E, tanto per essere chiari, Donald Trump millanta accordi a portata di mano ogni settimana, soprattutto in campo di export agricolo: non ricordo medesimi appeal degli Usa con la vecchia Urss ai tempi della Guerra Fredda. In seno all’Ue, poi, non esiste una politica estera e la logica del “liberi tutti” vede la Francia di Emmanuel Macron in prima fila nel siglare contratti e accordi miliardari con Pechino. Per non parlare della Germania. Quindi, lasciamo le remore e le fisime sui diritti umani e il “pericolo rosso” alle anime belle. Siamo realisti, esattamente come lo è Beppe Grillo.



Attenzione, però. Perché i segnali che proprio nel fine settimana appena terminato sono arrivati dalla Cina, al netto delle elezioni municipali a Hong Kong, parlano a lingua di una materia infiammabile ai massimi livelli, da maneggiare con attenzione e cura suprema. Cos’è accaduto? Primo, fatta salva la ridicola ritorsione a uso e consumo mediatico della vendita di Treasuries statunitensi in nome della diversificazione e della de-dollarizzazione (basta guardare a dinamica dei rendimenti Usa per capire che una strategia del genere fa il solletico o poco più), Pechino sta operando in senso totalmente inverso. Ce lo mostra questo grafico, dal quale si desume come quest’anno le emissioni cinesi in dollari abbiano già oggi toccato un livello quasi record, visto che da inizio anno (e con oltre un mese davanti a noi) il controvalore è stato di 195 miliardi di dollari contro i 211 del 2017, finora il massimo mai toccato. E, cosa più importante, fonti qualificate di Bloomberg parlano dell’intenzione a brevissimo termine – questione di giorni – di Pechino di dare vita a un’asta di debito sovrano con controvalore record da 6 miliardi di dollari, denominata in carta a 3, 5, 10 e 20 anni di maturazione. Il tutto nel contesto di un mercato, quello obbligazionario cinese denominato in biglietti verdi, da 740 miliardi di dollari di outstanding.



Cosa ci dice, tutto questo? Le chiavi di lettura sono due. Primo, la Cina – esattamente come sta accadendo con il conflitto commerciale – sta millantando guerra al dollaro e diversificazione a colpi di yuan e oro, ma, alla fine, continua a utilizzare la divisa statunitense per le emissioni sovrane più importanti, riconoscendone e paradossalmente rafforzandone così il ruolo benchmark sui mercati internazionali. Secondo, Pechino sta invece lavorando sul lungo termine, quasi in modalità maoista. Ovvero, sconta davvero un ridimensionamento in tempi medio-brevi dello status e del valore del biglietto verde e si indebita in quella valuta, perché conta di dover sostenere un carico inferiore a quello attuale, quando la carta a più lunga scadenza andrà a maturazione. Insomma, Pechino scommette sulla fine dell’Impero americano per come lo conosciamo. Economicamente e finanziariamente.

Se questa seconda ipotesi fosse quella reale, come prenderebbe la Casa Bianca il fatto che il referente politico del partito architrave di governo flirta apertamente con l’ambasciatore cinese, addirittura scambiandosi opinioni per due ore in una sede istituzionale? Temo non benissimo, calcolando che il capo politico dello stesso movimento ora è casualmente anche ministro degli Esteri, dopo aver benedetto il memorandum di accordo in qualità di ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. Questa sì è una domanda che meriterebbe un chiarimento: a quale gioco di lungo termine sta giocando Pechino? E cosa ne pensa M5S, di fatto partito che regge la politica estera del nostro Paese?

Ma non basta. Perché sempre lo scorso weekend, Bloomberg rendeva noto come – in pieno delirio collettivo ambientalista – il governo cinese abbia deciso di tagliare di netto gli incentivi per l’acquisto di auto elettriche, inviando uno scossone molto pesante ai produttori di batterie al litio. E, soprattutto, alle mire espansionistiche dei produttori esteri, tedeschi in testa, che hanno riconvertito in massa le loro produzioni, proprio per aggredire le quote di mercato enormi della Cina, sfruttando anche la politica di incentivo perenne di Pechino. Come intendere questa mossa? Una scelta strategica di breve termine, tanto per inviare l’ennesimo segnale in codice all’esterno – magari per far capire a Berlino di smetterla con il sostegno sperticato alle proteste di Hong Kong – oppure davvero qualcosa sta cambiando nell’approccio industriale del Dragone?

Domanda non da poco, perché in molti nel settore si chiedono se la Cina non abbia – più o meno volontariamente – bucato la bolla dell’auto ecologica prima che questa si gonfiasse eccessivamente, creando problemi interni a produttori che nascono come funghi a fronte di una domanda tutta da valutare e di indebitamento sempre crescente. I numeri della Caam (China Association of Automibiles Manifacturers) parlano chiaro: a ottobre le vendite di veicoli elettrici in Cina sono crollate del 45% “a causa dell’insufficiente domanda del mercato interno, dei tagli sostanziali ai sussidi statali e della pressione sui produttori affinché implementino la tecnologia”. Davvero è scoppiata la bolla, prima ancora che si formasse del tutto? Se così fosse, in Germania sarebbe un funerale. E i subfornitori italiani del comparto automotive si accoderebbero dolenti al feretro.

Anche perché quest’altro grafico ci mostra come il nuovo tracciatore parallelo del Pil cinese della Fathom, il CMI 2.0 (China Momentum Indicator), per il quarto trimestre di quest’anno veda il dato di crescita al 4,1% contro le attese, già al ribasso, del 6% ufficiale di Pechino. Insomma, un rallentamento che, se confermato, sarebbe davvero degno di una preoccupazione che ora diviene reale e giustificata. E urgente, tanto più che l’impulso creditizio cinese è ai minimi storici e tutto concentrato a livello interno, ovvero salvataggio di banche e fornitura di liquidità sul mercato per evitare default obbligazionari: quindi, la Cina e la sua liquidità di massa non salveranno la crescita mondiale per la terza volta in dieci anni. E senza l’intervento attivo del soggetto che dal 2009 in poi ha creato il 60% del nuovo debito mondiale, scordiamoci la ripresa dell’economia.

Infine, questi due grafici mostrano l’altro volto della Cina nel mondo: la colonizzazione a colpi di credito facile dell’Africa. E l’allarme, questa volta, è stato lanciato dal Fondo monetario internazionale, a detta del quale il 40% del Continente Nero vede governi con indebitamento a livelli quasi insostenibili, proprio a causa dei prestiti garantiti da Pechino e del loro abuso da parte di esecutivi dittatoriali o, comunque, corrotti o retti da satrapie.

Solo per fare l’esempio più eclatante, in Zambia il debito sovrano – compresi i bond con garanzia governativa – quest’anno è proiettato in salita al 92% del Pil e al 96% nel 2020, mentre quello del Sudafrica punta all’81% del Pil entro il 2028. Insomma, la Cina con i suoi prestiti munifici che hanno caricato ulteriormente lo stock di indebitamento – oggi al 300% del Pil, tanto per intenderci – ora è il top creditor non solo di gran parte dell’Africa, ma anche di moltissime altre nazioni emergenti: e se non puoi ripagare il dovuto, meglio ancora. Perché dopo l’inevitabile ristrutturazione del debito, gli assets più fruttuosi – porti, giacimenti, miniere, infrastrutture – di quei Paesi finiranno in mano cinese per un tozzo di pane, in base ad accordi stipulati all’atto della concessione dei prestiti. Colonizzazione, pura e semplice. Di cui l’Europa, tra l’altro, paga l’effetto collaterale dell’immigrazione di massa, visto che se un Paese va in crisi e rischia il fallimento, non stupisce che una parte dei suoi cittadini cerchi fortuna altrove.

La Cina, oggi, è tutto questo. E molto altro. Per questo appare davvero interessante capire di cosa abbia parlato Beppe Grillo per oltre due ore con l’ambasciatore di Pechino a Roma. E, soprattutto, in quale veste lo abbia fatto. Pare che al Dipartimento di Stato la questione non sia affatto passata inosservata.