Cosa dobbiamo attenderci da qui a fine anno? Ci sarà il rally di Natale oppure, come nel 2018, il mercato virerà al ribasso, schiacciato da criticità strutturali che alla fine avranno la meglio su artifici finanziari e propaganda politica? Difficile dirlo. Più che altro perché abbiamo a che fare con dinamiche che non hanno praticamente più nulla a che spartire con i fondamentali macro: il mondo va male, la ripresa è lontana anni luce e ogni trimestre segna un calo degli indicatori? La Borsa sale. Ma, in contemporanea, anche il reddito fisso resta su livelli di outstanding in controvalore da record assoluto. E anche l’oro non si schioda dai massimi. Sintomo che anche chi investe, tende a muoversi come si farebbe in una stanza sconosciuta e buia: con estrema cautela, evitando i movimenti bruschi e camminando rasente i muri, in cerca di punti d’appoggio.



Siamo all’hedging strutturale e di sopravvivenza. Ma qualche faro nella notte ancora resiste, qualche stella polare, ancorché offuscata, può darci un’idea del cammino da intraprendere. Ad esempio, la Fed. Nella fattispecie, la sua facility term e repo, ovvero il bancomat perenne che dallo scorso 17 settembre garantisce liquidità operativa al sistema finanziario Usa. E globale. Lunedì si è tenuta la prima asta term a 42 giorni, ovvero con maturazione del contratto nel 2020. Per l’esattezza, il 6 gennaio. E com’è andata? A fronte di 25 miliardi di dollari a disposizione, i cosiddetti dealers hanno presentato domanda per 49,05 miliardi in collaterale: ovvero, una bella sovra-iscrizione del doppio. E attenzione, perché da qui a fine anno, almeno stando al calendario appena modificato, ci saranno altre due operazioni con medesimo arco temporale di maturazione, ovvero nel 2020: anche in questo caso andremo in area 2x come ratio domanda/offerta? Una sola cosa è certa: la fame di liquidità di Wall Street non tende a diminuire. Anzi. Questo grafico mette in prospettiva la situazione: l’utilizzo quotidiano delle aste overnight repo ormai si è stabilizzato nel range 60-80 miliardi di dollari. E da lì non pare intenzionato a calare.



Cosa significa, parlando una lingua meno tecnica? Semplice. Che le banche e le istituzioni finanziarie accreditate presso la Fed di New York per partecipare alle aste necessitano quotidianamente di una cifra che oscilla in quella forchetta di offerta, il tutto per operare in modalità business as usual rispetto alle loro scadenze sul trading: in parole povere, il sistema finanziario Usa ha bisogno che la Banca centrale gli “anticipi” quotidianamente fra i 60 e gli 80 miliardi di dollari di liquidità a un giorno per riuscire a far fronte ai propri oneri. Facile fare i finanzieri così, non vi pare? Il tutto, a fronte della presentazione di collaterale esigibile, ovvero Treasuries e Mbs, cartolarizzazioni assicurate da mutui che – magari – cominciano a puzzare come il pesce nel terzo giorno. È questo il mondo in cui viviamo, è questa l’altra faccia – quella oscura, direbbero i Pink Floyd – del mercato rialzista del secolo, dell’economia più sana e rampante dagli anni Sessanta. Almeno stando alla retorica della Casa Bianca.



Non vi basta per essere preoccupati? Non c’è problema. Guardate questo altro grafico, il quale certifica con fonte non certo tacciabile di dietrologia – l’autorevole e molto establishment agenzia Bloomberg – ciò che vi dico da almeno due mesi: l’operatività emergenziale della Fed è stato il motore del nuovo rally sulle equities innescatosi con l’autunno e arrivato fino a oggi. Alla fine di agosto, lo stato patrimoniale della Federal Reserve era pari a 3,76 triliardi di dollari. A metà novembre era pari a 4.05 triliardi di dollari. E sapete a cos’è corrisposto quell’aumento? A un reverse pari al 40% della normalizzazione del proprio stato patrimoniale iniziata dalla Fed alla fine del 2017: in parole povere, quasi la metà del dimagrimento di bilancio occorso in due anni di falsa retorica del “è tutto a posto, la ripresa è solida” è stato bruciato in soli due mesi di operatività, fra facility repo e term e Qe vero e proprio.

E lo Standard&Poor’s 500, nel frattempo? Da fine agosto a metà novembre è salito del 7%, sfondando o sfiorando sempre nuovi record. Solo l’ennesima coincidenza? Non la pensa così Peter Boockvar, responsabile per gli investimenti al Bleakley Financial Group, il quale ammette candidamente che “oramai i mercati vedono e prezzano ogni aumento del bilancio della Fed come un Qe”. Cristallino ed elementare, finalmente. Soprattutto, senza ipocrisia. Di più, a domanda relativa all’apporto di quei 250 miliardi di aumento dello stato patrimoniale sul corso azionario, Boockvar taglia corto: “Non esiste alcun tipo di dubbio sul fatto che quella mossa abbia ampiamente aiutato un aumento dei prezzi dei titoli”. Ma guarda un po’. Eppure, a detta della stessa Fed, quell’intervento emergenziale cominciato il 17 settembre scorso avrebbe dovuto avere natura temporalmente molto limitata, visto che sarebbe servito unicamente a calmare gli scossoni sull’interbancario legati alle scadenze di fine terzo trimestre e alle loro esigenze di extra-liquidità. Siamo a novembre e la platea di quella facility non solo è aumentata a livello di controvalore offerto quotidianamente, ma ha visto anche crescere il numero di aste, arrivando anche a liquidità offerta su 42 giorni di maturazione. Oltre al Qe, ovviamente, per quanto per ora limitato rispetto al recente passato.

Tutto bene, quindi? Come mai Jerome Powell, nei suoi frequenti e interessanti interventi presso le più prestigiose istituzionali finanziarie ed educative statunitensi, non offre mai una spiegazione chiara e plausibile a questo palese cambio di rotta, a questa distorsione della politica monetaria? E come mai il mondo non sembra sentirne il bisogno, accettando con cuore sollevato ogni concessione della Fed? Perché siamo sul baratro e da lì non riusciamo a schiodarci. Anzi, ogni giorno che passa abbiamo bisogno di più sostegno per non precipitare. Ma tutto prosegue, tutto continua a girare insieme alla giostra delle Borse in rialzo. Anzi, signori, c’è di peggio. Guardate questo terzo grafico, il quale è contenuto nell’ultimo report di Nordea.

Cosa ci dice? Semplice, ancorché appaia complesso. Che se lo Standard&Poor’s 500 ci regalerà un fine anno con il botto, mantenendo l’attuale trend sui corsi, questo significa – prospetticamente, rispetto proprio al controvalore di liquidità immesso sul mercato dalla Fed da metà settembre ad oggi – che gli indici non solo stanno prezzando un Qe4 già operativo e in aumento, ma anche un… Qe5! Ovvero, un ulteriore sviluppo delle misure di stimolo partite da fine ottobre, le quali rappresentano non solo la prospettiva di un Pomo in senso stretto per tutto il 2020, ovvero operazioni permanenti e dirette della Federal Reserve sul mercato, ma anche la più classica della situazioni Fomo (Fear Of Missing Out, timore di perdere l’occasione) come driver principale dei nuovi e continui rialzi. Insomma, euforia da liquidità abbondante, garantita e soprattutto pressoché gratis. Come ai vecchi tempi di Ben Bernanke, quando tutto appariva rosa e pieno di unicorni!

Insomma, le prossime 4-6 settimane ci diranno molto di quale anno ci attende per le presidenziali Usa. E di quanta residua credibilità goda la pantomima del conflitto commerciale con la Cina, visto che in caso di ingresso conclamato e ufficiale in una nuova stagione di Qe, il driver principali degli short squeezes da impazzimento quotidiano degli algoritmi non servirà più. E forse, anche la danza macabra dei buybacks potrà tirare un sospiro di sollievo ed entrare in modalità “pausa” per un paio di trimestri. Pronti, poi, per decidere chi vincerà all’inizio di novembre 2020, visto che un crollo dei mercati potrebbe pregiudicare in maniera palese la riconferma di Donald Trump, mentre un’economia e una Borsa in spolvero grazie alla Fed tornata in modalità forza quattro potrebbe ipotecare la permanenza del tycoon a Pennsylvania Avenue per altri quattro anni.

È questo il famoso libero mercato, il neo-liberismo, il turbo-capitalismo che turba i sonni dei keynesiani di ritorno e fuori tempo massimo della Storia? Se sì, meglio occuparsi di altro. E lasciare che il fiume scenda a valle.