Sgomberiamo subito il campo da letture dietrologiche: la visita a Kiev di Giorgia Meloni non c’entra nulla con quanto accaduto lunedì al nostro spread. Il quale, cinicamente, se ne frega dell’Ucraina. In compenso, basta dare un’occhiata ai siti d’informazione e ai quotidiani di oggi per capire come quella missione abbia ottenuto il suo principale scopo: fare tabula rasa di ogni polemica. E, soprattutto, silenziare l’emergenza superbonus. Perché alla base di tutto, quantomeno a livello comunicativo, sta un principio tanto elementare quanto strutturalmente inossidabile: nulla può emotivamente competere con le atrocità di una guerra. E nulla può essere più urgente.



Quando occorre, quindi, si alza il volume della nuova Radio Londra. E tutto il resto, sparisce. Altrimenti, chi osa far notare l’esistente di un contorno di criticità differente, viene immediatamente tacciato di intelligenza con l’aggressore e bandito dal genere umano. Ormai lo schema è consolidato. Lo spread, però, è testardo. E dispettoso, come ci mostra questa immagine relativa al suo andamento intraday di lunedì, mentre tutte l’attenzione dei media era concentrata fra Kiev e Varsavia.



Perché per quanto ammansito da infiniti trimestri di Bce intenta ad acquistare persino l’aria che respiriamo, quando è proprio quest’ultima a generare tensione, immediatamente riconosce la voce del padrone. E da buon cane di Pavlov, reagisce. Prima salivando. Poi, in casi estremi, abbaiando. E mentre Giorgia Meloni abbandonava lo scompartimento del treno e si preparava alla sua discesa nell’Orrore conradiano in diretta a reti unificate, il mercato inviava un segnale molto chiaro: per la prima volta, i futures sull’euro-dollaro prezzavano un aumento di 50 punti base pieni il prossimo 16 marzo da parte dell’Eurotower. Di fatto, la Bce pare intenzionata a non scherzare più. E pare soprattutto intenta a voler spedire il costo del denaro al suo massimo storico per l’eurozona.



Ma il nostro spread, il medesimo indicatore passato da strumento di speculazione finanziaria a testimone oculare della bontà dell’azione di Governo nei primi 100 giorni, ha prezzato anche altro. E, infatti, il balzo intraday è stato di quelli decisamente drastici. Perché, pur godendo del silenzio generale imposto dalla guerra e dal suo timore reverenziale, il fatto che il medesimo Governo abbia approcciato la questione superbonus facendo notare alle banche come – in base ai calcoli dell’Agenzia delle Entrate – godano in realtà di altri 34-35 miliardi di capacità fiscale per assorbire i crediti incagliati, qualcuno non lo ha gradito. Per nulla. E Mr. Spread si è premurato di renderlo noto. Palesemente.

Brutta faccenda, meglio oscurarla. E non perché il nostro differenziale in area 200 punti base rappresenti chissà quale tragedia, bensì perché – così facendo – il Governo ha più o meno involontariamente cerchiato di rosa fluorescente un qualcosa che necessità invece di passare inosservato alle masse, al fine di funzionare. Esattamente come l’omino dello spot sulla prevenzione dell’AIDS negli anni Novanta, ecco che il doom loop che lega Tesoro, banche e assicurazioni ha gridato che il Re è nudo. Ovvero, o compro Btp al posto della Bce o acquisto crediti incagliati per evitare uno tsunami di insolvenze. Tertium non datur, caro Governo. Perché le banche non sono onlus del Mef. Non del tutto, almeno. E convocarle a Palazzo per imporre un matrimonio combinato, quando da 7 mesi dicono no a quel fidanzamento, suona male. Suona di resa. O, peggio, suona come un allarme rosso.

E in effetti, qualcosa comincia davvero a scricchiolare. Ce lo mostra questo altro grafico, dal quale intuitivamente capiamo quale sia la fonte cui si è abbeverato il mercato prima di dirsi convinto di altri 50 punti base di aumento dei tassi fra 20 giorni.

Le previsioni inflazionistiche per l’eurozona tracciate dagli swaps a 5 anni sono in continuo aumento. Tradotto, il ritorno in area 2% si fa non solo più distante, ma decisamente più complesso di quanto si credesse. E perché? Per la medesima ragione che ha visto imbizzarrire il nostro spread: qualcuno ha – più o meno involontariamente – affermato che il Re è nudo. E contemporaneamente gridato al lupo, al lupo! Perché esattamente come il nostro sistema bancario non può farsi carico di un duplice sostegno al Governo, in primo luogo sul fronte Btp e in seconda ma emergenziale istanza sui crediti edilizi incagliati, così l’Europa sta lentamente prendendo atto di come non si possa operare in maniera efficace contro l’inflazione e per una normalizzazione del costo del denaro, mantenendo di fatto operativi programmi espansivi che schermino gli spread dei Paesi più indebitati. Insomma, monetizzare il debito e finanziare il deficit mal si concilia con un ciclo di aumento dei tassi di interesse.

In realtà, non serviva un premio Nobel per scoprirlo. Ma si sa, esattamente come la guerra copre ogni rumore, così le varie emergenze – dalle sanzioni agli sbarchi al price cap – hanno consentito all’Ue di fingere che non esistesse un esiziale vulnus in seno alla sua politica monetaria. L’Eurozona è un puzzle tenuto insieme da una colla chiamata Qe, venuta meno la quale – nella sua somministrazione ciclica e strutturale -, l’intera intelaiatura si sfalda. Esattamente ciò che sta accadendo. E il fatto che proprio ieri, il Governatore della Banque de France abbia vestito i panni del pompiere in un’intervista con Les Echos, invitando di fatto l’ala rigorista della Bce a guardare con maggiore pragmatismo verso la questione dei tassi, parla chiaro. Per quanto i rapporti fra Roma e Parigi siano tutto tranne che distesi e cordiali, le banche francesi hanno in pancia da smaltire ancora troppi Btp per potersi permettere un’escalation in stile 2011.

Ma ecco che proprio in seno a quell’intervista, Villeroy de Galhau compie a sua volta il passo falso di ammettere come non sia obbligatorio a prescindere per l’Eurotower dover operare un aumento dei tassi a ogni board fino a settembre. Come dire, in seno alla Bce l’idea è quella. Alzare i tassi a dismisura. O, comunque, fino a quando quello swaps sull’inflazione a 5 anni non vada drasticamente e sostenibilmente in traiettoria di calo.

Sarà per questo che il nostro spread si è imbizzarrito, lunedì? Sarà per questo che Giorgia Meloni pare comportarsi più da Primo ministro ucraino che italiano? Sarà per questo che al Mef, pur negandolo, guardano all’emissione di inizio marzo del nuovo Btp Italia con un’apprensione degna di un esame senza appello? Tranquilli, comunque. L’importante è portare con stile giornale a pantofole agli interessi Usa. Sperando in un aiuto che, come sempre è accaduto finora, mai arriverà.

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