Oggi eviterò il solito diluvio di cifre e di dati. Anche perché, in tutta sincerità, sono sempre più convinto che in questo Paese i numeri siano presenze sgradite: nella patria di santi, poeti e navigatori, si preferiscono le chiacchiere. Quelle che presuppongono debiti cancellabili con un tratto di penna immaginario; quelle delle Banche centrali che non falliscono per statuto e che quindi possono stampare all’infinito, risolvendo i problemi a colpi di carta filigranata; quelle dei ristori per tutto e tutti, tanto paga il pantalone delle trattenute alla fonte e quei beoti dei Paesi del Nord, incapaci di bloccare quella straordinaria, potenziale massa monetaria di assistenzialismo noto come Recovery fund. All’italiano medio piace questo, tocca prenderne atto. Peccato che, senza nemmeno bisogno di ricorrere ai numeri, poi la realtà ti sbatta in faccia le cose come stanno. Ad esempio, sotto forma di Christine Lagarde che ti dice chiaro e tondo che – al netto dell’onnipotenza in linea teorica delle Banche centrali -, cancellare il debito va comunque contro i Trattati. E la Bce non può. O, meglio ancora, sotto forma di veto ungherese e polacco che blocca i 209 miliardi su cui un Governo di dilettanti allo sbaraglio aveva basato la sua intera azione politica, nel miglior solco di Antonio La Trippa.
Signori, abbiamo presentato delle bozze di utilizzo di quei fondi con le caselle delle cifre vuote. Basterebbe questo per portare i libri in tribunale. Per non parlare della Manovra 2021, una collezione di mancate coperture e deficit in libera uscita. Alla fine, state certi, Viktor Orban e soci otterranno un compromesso. Angela Merkel vuole chiudere il semestre tedesco con un’altra medaglia da appuntare al petto. Anche perché, ho come la sensazione che la mossa dei due ribelli di Visegrad non sia soltanto frutto di orgogliosa rivendicazione della natura sovrana della loro democratura, bensì un gioco delle parti. Finalizzato, appunto, a razionalizzare un po’ le cose. Utilizzando le cattive maniere. E, soprattutto, a far abbassare la cresta ai Pedro Sánchez di turno, quelli che vanno in conferenza stampa a dire che i soldi europei li prendono soltanto a fondo perduto, tanto a togliere le castagne del debito dal fuoco dello spread ci pensa la Bce a costo zero.
Ve lo avevo detto che i Paesi del Nord non avrebbe subito in silenzio: detto fatto, di colpo e in nome della libertà sovrana di discriminare gay e trans (vulgata che piace da morire ai radical chic nostrani), Polonia e Ungheria mettono la zeppa al processo di grande rivoluzione europea che vi avevano spacciato finora. Quello che, a detta di qualche cervello politico ed economico sopraffino, addirittura avrebbe posto fine al regime rigorista e di austerity tedesco e aperto la strada a una mutualizzazione tout court del debito, agli eurobond. Solitamente, processi di delirio simili finiscono con un brutto risveglio, madidi di sudore.
E perché mai Ungheria e Polonia dovrebbero essere i cavalli di Troia dei cosiddetti frugali? Per due motivi. Primo, soltanto il Governo italiano poteva credere o voler far credere che quei 209 miliardi sarebbero davvero arrivati. Lo ripeto: se si fosse trattato realmente di fondi per il contrasto dell’emergenza Covid, sarebbero stati pronta cassa. Perché l’emergenza – per definizione – va contrastata quando è in corso. Altrimenti, si tratta di fondi per la ripresa. Con terminologia bellica, si parlerebbe di ricostruzione. Ovvero, denaro che serve a ricostruire dalle macerie. E non per evitare che queste si affastellino. Non a caso, l’Europa si è cautelata. Il piano partorito al Consiglio dello scorso giugno, quello durato quanto la serie di rigori del Milan in Portogallo, si chiama Next Generation Eu: ovvero, dedicato alla prossima generazione. Quindi, denaro per la ripresa. Non per l’emergenza. Per quella ci sono i fondi Sure, finanziati appunto con quell’emissione mutualizzata una tantum che ha provocato turgori degni di miglior causa fra i fans della tipografia Lo Turco. E il Mes, pietra dello scandalo da almeno sei mesi. Tertium non datur.
E signori, l’altro giorno Ursula von der Leyen ha fatto cinque tweets in altrettante lingue, nei quali annunciava l’esborso di una nuova tranche di fondi Sure per altrettanti Paesi. Nemmeno a dirlo, altri 6,5 miliardi erano per l’Italia. A che pro? Pagare la cassa integrazione. Signori, vogliamo capirlo che questo Paese sta vivendo grazie alle sacche di sangue che arrivano dall’Europa, anticipo dopo anticipo, prestito dopo prestito? Per forza che poi prende piede la storiella della cancellazione del debito: siamo sul ciglio del burrone un’altra volta, esattamente come nel 2011. Anzi, in equilibrio ancora più precario, basti vedere i conti dell’Inps. Ed ecco che in Europa hanno deciso di dire basta: blocchiamo il negoziato sul Budget con la scusa del rischio fascismo in Polonia e Ungheria (tanto gradito alla stampa progressista che ci monterà una grancassa epocale) e, facendoci scudo con la stato di diritto, mandiamo anche un bel segnale ai Pedro Sánchez di turno: attenzione, perché siete vivi solo grazie a noi. Cinico, certo. Ma la vita è questa, se vi piace sentirvi dire che la Bce stampa quanto vuole e che il debito non esiste, sapete a chi rivolgervi.
Secondo, temo che questa volta l’Italia dovrà fare i conti con una ristrutturazione non più rinviabile. Lo dicono i numeri, destinati ad aggravarsi con la seconda ondata e con la fine del regime emergenziale del blocco dei licenziamenti. Ma lo dice anche lo strano atteggiamento della politica. Avete notato anche voi che, da qualche settimana, esponenti di governo e opposizione continuano a citare la Germania come esempio edificante di come si supporta l’economia reale in una fase emergenziale come quella attuale? Tutti, persino i noti germanofobi da barzelletta di certo centrodestra, gente la cui critica politica affonda le sue radici nello stereotipo del rutto libero e del calzino bianco con il sandalo. Ovviamente, questo è un segnale disperato. E disperante. Perché quando il presunto nemico, l’inflessibile arbitro con cui occorre dialogare ma a cui bisogna anche opporre fermezza (i proverbiali pugni sul tavolo), diventa la stella polare di qualsiasi ragionamento che ruoti attorno a quell’iperuranio del nulla che è la questione dei ristori nelle sue varie edizioni – quasi una saga degna di Arma letale o Ritorno al futuro -, vuol dire che siamo ai titoli di coda.
Perché, alla fine, il nodo resta sempre e soltanto uno: se Berlino ha potuto già mettere in campo una potenza di fuoco di circa 240 miliardi di euro è per una ragione semplice. Non ha un debito pubblico che entro fine anno rischia di andare in area 160% del Pil. Se ci avete fatto caso, la pandemia ha portato con sé la nota positiva dell’aver spazzato via il campo da ragionamenti assurdi tipo il surplus tedesco che ci ammazza o l’euro creato sul modello del vecchio marco, a tutto beneficio dell’economia teutonica. Certo, c’è ancora qualcuno che ogni tanto tira fuori l’argomento, ma va trattato come i giapponesi nella foresta, quelli per cui la guerra non è mai finita. Tra poco, molto poco, cominceranno a parlare i fatti. Anzi, già oggi sentire certi leader di partito citare Angela Merkel come figura di riferimento nella gestione della pandemia fa impressione. Perché significa che ormai la raschiatura di ogni possibile barile propagandistico e ideologico è giunta al termine: e sul fondo, si intravede già la sagoma nefasta della realtà.
Sapete quale? Ce la mostra quest’unico grafico che ho scelto per oggi: nonostante quanto messo in campo dal Governo federale tedesco, l’ultimo sondaggio condotto dall’istituto Ifo mostra come la percentuale di imprese tedesche che ancora oggi ritiene difficile preventivare con certezza il proprio outlook economico futuro sia scesa dal 40% a “solo” il 20% (linea nera del grafico). Di fatto, in Italia sarebbero saltati i tappi di champagne per una notizia simile.
Sapete invece come è stata commentato lo studio in Germania? La percentuale è ancora troppo alta, rimane comunque al di sopra del livello pre-Covid: troppa incertezza, occorre fare di più. La differenza sta tutta qui: la mentalità. E la decenza di dire le cose come stanno, esattamente come ha fatto Angela Merkel nei suoi due discorsi alla nazione in vista della seconda ondata e delle nuove restrizioni. Due interventi, fatti parlando chiaro. E dicendo anche cose sgradevoli, annunciando misure controverse, come ha mostrato la manifestazione negazionista dell’altro giorno a Berlino. Qui, ormai, regoliamo gli orologi sulle convocazioni dell’ennesimo Consiglio dei ministri, sulla conferenza stampa del premier per il nuovo Dpcm o sulle ore di ritardo rispetto alla tabella di marcia nella pubblicazione del 534mo Decreto legge.
Oppure, mentre la gente muore in corsia o direttamente a casa propria, impossibilitata non solo a farsi un tampone ma anche il vaccino anti-influenzale, la politica non trova di meglio da fare che spaccarsi, rimescolarsi e rimodellarsi attorno alla norma salva-Mediaset. Ovviamente, facendosi scudo con il patriottico alibi di sbarrare la strada ai barbari d’Oltralpe di Vivendi e definendo Mediaset un’azienda strategica. Signori, Mediaset è importante solo per i livelli occupazionali che garantisce – che certamente non saranno compromessi sic et simpliciter dalla rete unica, se questa è la scusa per l’ennesimo inciucio, mentre il Paese reale muore -, mentre a livello di contenuti stiamo definendo strategiche Barbara D’Urso o Temptation island. Parliamone. E prepariamoci. Perché stavolta non si scappa. Quei soldi a cui avevamo fatto la bocca, come si dice a Milano, se mai arriveranno, saranno vincolati a tali e tante condizionalità da farci rimpiangere il Mes, persino quello prima versione imposto alla Grecia.
È finita la pacchia, le grida manzoniane di un Presidente dell’Europarlamento che si veste senza vergogna, né decoro istituzionale da ultras di parte per chiedere un altro, ennesimo pasto gratis, ne sono l’umiliante conferma. Non a caso, Mario Draghi è sparito dai radar. Ma passa molto tempo al telefono. Almeno così dicono.