Quando la sacrosanta ammirazione declina in plebiscitarismo apologetico non è mai un bel segnale per una democrazia. E quanto andato in scena all’assemblea di Confindustria nei confronti di Mario Draghi ha pericolosamente rasentato quell’estremo. Ovviamente, gli industriali hanno tutto il diritto di sostenere il Governo. E anche di ritenere l’ex numero uno della Bce un referente finalmente credibile con cui rapportarsi. Ma quando si auspica una sua lunga permanenza a palazzo Chigi in quella maniera, en plein air e soprattutto alla vigilia dell’esiziale giro di boa della successione al Quirinale, la sensazione che si ha è quella di un fastidio non tanto verso la politica, quanto verso il Parlamento. E questo è pericoloso.
Intendiamoci, la classe politica italiana è una delle peggiori in assoluto al mondo. E non da oggi. Il problema è che Confindustria, esattamente come i sindacati, dovrebbe battersi con ruolo attivo per il miglioramento dei rappresentati del popolo, dovrebbe offrire energia e spunti per la creazione della futura classe dirigente, migliore di quelle che l’ha preceduta. Non dovrebbe affidarsi all’uomo della Provvidenza o dell’Emergenza e chiederne la permanenza al potere ad libitum e, soprattutto, al netto di partiti e tornate elettorali. Perché questo è il messaggio uscito dalla quella standing ovation, degna del pubblico femminile di Amici di fronte a un ballerino a petto nudo.
D’altronde, la situazione va vista in prospettiva. Confindustria nasconde dietro i poteri taumaturgici del presidente del Consiglio, dietro al suo decisionismo che annichilisce con un solo sguardo torvo le rendite di posizione politiche, un quadro sconfortante. E lasciamo pure perdere le oltre 70 crisi aziendali aperte e lungi dall’essere risolte, pur dovendo a quelle donne e uomini il minimo sindacale di rispetto per una vita che non può essere decisa tramite una mail. Il problema reale, quello che si sostanzierà da qui ai prossimi trimestri e che già oggi mette seriamente in discussione i trionfalismi degni di miglior causa sul Pil, sta tutto nelle parole di Tiziano Treu, presidente del Cnel, giuslavorista, già ministro nei governi Dini, Prodi e D’Alema, riportate ieri in prima pagina da ItaliaOggi. Eccole: «Troppi contratti a termine e di breve durata nella nuova occupazione del post pandemia. Le imprese evidentemente sono ancora prudenti sulla crescita. Prima di fasciarci la testa, dobbiamo fare di tutto per sostenere la buona occupazione: ci sono settori produttivi che si sono esauriti, e su cui insistere significa perdere tempo. Mentre altri sono emersi. È su questi che occorre investire con una nuova formazione, a partire dalla scuola, adeguata ai nuovi profili richiesti. Non solo per orientare i ragazzi ma anche per recuperare chi un lavoro lo aveva e lo ha perso». E cosa fa Confindustria per rispondere a questa che è l’emergenza reale, vera e drammatica cui dover dare risposta? Plebiscitarismo di stampo sudamericano. Davvero deludente. Soprattutto da parte di un uomo come Carlo Bonomi, il quale dovrebbe sapere che certi salti spazio-temporali verso orizzonti di superamento forzato del confronto portano solo a contrapposizione frontale. L’esatto contrario del Patto per l’Italia evocato dallo stesso Mario Draghi.
Anche perché questo grafico parla chiaro: la ripresa nell’eurozona sta rallentando. E chiaramente. La ragione? I colli di bottiglia sulla supply chain, i quali stanno facendo mordere sempre più il freno all’industria. E a cascata, i servizi cominciano ad arrancare. Soprattutto in Germania e Francia, dove il PMI Composite in settembre ha sventolato la proverbiale prima bandiera rossa.
La lettura tedesca era attesa dagli analisti a 59.2 ma si è fermata a 55.3, mentre quella di Parigi era vista dal consensus a 55.7 ma ha registrato solo un 55.1. Nulla di drammatico, per carità. Si resta comunque saldamente al di sopra dell’asticella simbolica fra contrazione ed espansione fissata a 50.0 ma il trend è negativo. E la crisi della fornitura di materie prime e componenti (microchip in testa) appare ben lungi dall’essere superata, oltretutto in piena impennata dei prezzi che per le aziende significa costi di produzione in aumento, margini in calo e rischio fondato di dover caricare sulla filiera gli eccessi. Tradotto, aumenti per il consumatore finale. Quella brutta bestia dell’inflazione che, udite udite, persino la Fed ora non definisce più tanto disinvoltamente transitoria. È rimasta solo Christine Lagarde a pensarlo. E questo, di per sé, dice già molto. Forse, troppo.
Ma è il clima generale del Paese che sta mostrando segnali di normalizzazione galoppante, l’antitesi di una sana normalità. Il tornado di dissenso interno che ha colpito Matteo Salvini è stato eclatante, così come la chiara impostazione filo-governativa del ministro Giorgetti nel farlo gonfiare silenziosamente di energia ed elettricità fino a esplodere come un temporale di fine estate, appunto. Di colpo ma nel momento più propizio, quello dello snodo politico dirimente sul Green pass. I sindacati appaiono totalmente impotenti e costretti a un mero rituale di rappresentanza, fra vuote minacce di sciopero e convocazioni procedurali al ministero del Lavoro o dello Sviluppo economico. La partita si gioca altrove, la piazza è vuota. E svuotata. Miracoli della pandemia e dello spread a due cifre.
E che dire dell’offensiva di Mediobanca nella partita fondamentale per il controllo di Generali, la cassaforte d’Italia? Di colpo, nel pieno di queste ore di normalizzazione a tempo di record, Alberto Nagel ha deciso di rompere gli indugi, comprare titoli e salire al 17,22% per stroncare sul nascere l’offensiva del patto Caltagirone-Del Vecchio? Forse il rinnovato clima da pieni poteri in mano a palazzo Chigi ha garantito il sentiment necessario alla mossa, quasi fosse la fornitura di un silenzioso via libera per evitare salti nel vuoto che vadano a intaccare gli equilibri fondamentali del Leone triestino? Il dubbio sorge. Ripeto, tutto benissimo. Lo standing del nostro Paese all’estero ha subìto un upgrade spaventoso negli ultimi sei mesi e l’uscita di scena ufficiale di Angela Merkel, attesa fra 48 ore, garantisce l’apertura di uno spazio senza precedenti per l’assunzione addirittura di una leadership assoluta. La Bce continua a comprare e schermare lo spread e, state certi, proseguirà anche dopo il 31 marzo 2022. I segnali ci sono tutti, già oggi. La Germania, eventualmente, sceglierà un’altra strada. Ma sarà la Bundesbank a decidere e non il Bundestag. Altro pessimo segnale.
Ora, però, facciamoci una domanda, ricordando le parole di Tiziano Treu: quale sarà il conto da pagare all’Europa, una volta terminata la luna di miele pandemica? Davvero Mario Draghi non dovrà mettere sul piatto una sostanziosa ricompensa riformista per questo 2021 vissuto in punta di pacche sulle spalle? Forse, è il caso di riflettere. Perché se anche l’ex numero uno Bce restasse a palazzo Chigi per un’altra legislatura dopo il 2023, resta il vulnus di una classe politica assente e di un Parlamento svuotato. Un’Aula sorda e grigia. Magari in attesa del bivacco finale di un manipolo di tecnocrati e banchieri. Perché cari lettori, tra normalità e normalizzazione corre una bella differenza. E in mezzo, sempre più schiacciato come vaso di coccio tra vasi di ferro, c’è il concetto stesso di rappresentanza democratica.
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