Il Governo riuscirà a trovare la proverbiale quadra nei conti in vista della Manovra? I miliardi che mancano all’appello sono tanti. Circa 30. Le fonti di introito a copertura, poche. Circa 12 miliardi dalle misure approntate o in via di applicazione, di fatto sperando nella logica della garanzia statale implicita (e previsionale) da incasellare però come entrata certa. Occorre altro, però. E se l’aleggiare del totem pensioni sembra preparare il terreno a un blitz con sede Inps, ecco che la questione andrebbe affrontata in maniera più ampia. E di lungo periodo.
Perché se l’ipotesi che comincia a circolare è quella tutta italiana della manovra correttiva autunnale, un evergreen fin dai tempi del Pentapartito, una dinamica tanto silenziosa quanto allarmante nella sua ineluttabilità ci mostra come l’Italia sia solo un esempio più elefantiaco di altri. Ma non certo l’eccezione in seno ai Paesi sviluppati.
Prima di concentrarci sul tema specifico, date un’occhiata ai questi altri due grafici: il trend ci mostra una emergentizzazione del modello occidentale. Insomma, il Qe strutturale ha talmente ampliato i margini accettabili e accettati dal mercato di ricorso al deficit sistemico da vedere le nazioni evolute andare incontro a un futuro da Paesi in via di sviluppo, quando si parla di costi di finanziamento.
Ovviamente, le debite proporzioni vanno mantenute. Ma è la prospettiva che deve spaventare. E lo mostra il grafico principale. La dinamica da monetizzazione del debito e finanziamento diretto del deficit che sottende gli ultimi cicli di Qe, infatti, ha portato con sé un frutto avvelenato. Un cambio non di narrativa, bensì di paradigma. La fine silenziosa del regime keynesiano di Tax’n’spend e la presa del potere, quasi da golpe morbido, del Cut and print.
Se infatti come mostra l’immagine, la possibilità impositiva dei Paesi occidentali sta esaurendosi, pena il comparire in piazza delle ghigliottine e la distruzione del tessuto produttivo reale e non finanziario, proprio l’esempio italiano di probabile manovra correttiva ci mostra come l’unica alternativa sia il taglio della spesa. Ciò che si chiama “razionalizzazione”, tanto per non allarmare. Ovvero, decurtazione di servizi verso cittadini la cui capacità di spesa e di acquisto è già messa a dura prova da inflazione strutturalmente più alta e dinamiche salariali ormai secolarmente stagnanti. Insomma, se tassare di più non si può, si taglia. Spending review, ring any bells? E la tassazione, in effetti, rispetto alla riduzione dei trasferimenti ha un difetto: se sono disoccupato o indebitato cronico, difficile che possa pagare. Puoi pignorarmi, segnalarmi in centrale rischi, sfrattarmi. Ma da un rapa di Stato non cavi sangue. Puoi però togliermi servizi sanitari, trasporti e tutto ciò a cui, come cittadino-contribuente, avrei formalmente diritto. “Livelli essenziali”, questa la formula magica. A tutto il resto, Borsa in testa, penseranno le Banche centrali. Cut and print, appunto.
L’uno-due arrivato dal Meeting di Rimini ha decisamente molto a che fare con questo. Perché all’ammissione del ministro Giorgetti su una Manovra complicata, è seguita la messa in guardia del ministro delegato al Pnrr, Raffaele Fitto: In sede di revisione del Patto di stabilità, l’Italia rischia. Addirittura, è ricomparso lo spread. E la necessità di tenerlo a bada. D’altronde, i numeri parlano chiaro. Ora si capisce il perché dell’inserimento della tassa sugli extra-profitti delle banche all’ultimo minuto, senza preavviso e alla fine del Cdm pre-vacanziero. Si capisce il perché del mancato sblocco del fondi post-alluvione. Si capisce il perché della blindature delle extra-entrate garantite dalle accise sui carburanti. E si capisce anche l’annunciato blitz fiscale di settembre, quando fioccheranno circa 2 milioni di avvisi bonari. Ma in sede di Legge di stabilità, i numeri devono quadrare. Non fosse altro perché quel medesimo provvedimento va inviato in Europa per il vaglio.
Ora, manovra correttiva significa due cose: o tagli della spesa o aumento della tassazione. Tertium non datur. Anzi, un certo livello di terzietà esiste. Ma se raggiunto, il passo successivo sarebbe esiziale: sblocco pressoché immediato di almeno 15-20 miliardi dei 35 previsti dalla terza e quarta tranche del Pnrr. E, soprattutto, loro destinazione ad minchiam, passatemi la definizione. Con il beneplacito dell’Ue, al fine di evitare un effetto domino nell’Eurozona innescato dall’elefante italiano nella stanza. Anche perché il grafico parla chiaro: se il PMI tedesco reso noto oggi parla la lingua del disastro in tutte le sue componenti, ecco che quella dei servizi addirittura è precipitata in piena contrazione a 47.3. L’attesa degli analisti era per una lettura di 51.5. E piaccia o meno, l’interdipendenza dell’economia reale italiana da quella tedesca è forte. Macchinari e componentistica in testa.
Storicamente, andamenti negativi della Germania si riflettono sul nostro Pil con un ritardo di tre mesi. Ovvero, in pieno periodo di discussione sulla Legge di stabilità. Per questo il ministro Fitto ha tolto dall’armadio degli spauracchi lo spread, agitandolo al Meeting di Rimini incurante dell’odoraccio di naftalina da 2011? Con la Bce che negli ultimi 16 mesi ha garantito l’assorbimento del 61% di emissioni di debito e la fantasia rispetto ai Btp indicizzati all’inflazione ormai esaurita, salvo offrire un etto di prosciutto cotto in omaggio ogni tot titoli, l’aria comincia a farsi pesante. L’autunno pare lontano. Ma non lo è. E l’informazione-megafono rischia di amplificarne i danni. Che vi assicuro, già di per sé da qui a qualche mese saranno enormi.
D’altronde, quando l’inquilino di palazzo Chigi sente la necessità di ribadire pubblicamente come la sua maggioranza governerà per 5 anni, solitamente non supera i 6 mesi.
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