Tira brutta aria. Brutta davvero. Come in un b-movie sulla Guerra fredda, tornano le spie nelle ambasciate e i militari infedeli. Spie che, immagino, una volta giunte in Russia finiranno a condividere la cella con Alexei Navalny, visto il tasso di incapacità dimostrata nel fare il loro lavoro: Avevo solo informazioni irrilevanti, ai russi nessun dato strategico, ha infatti dichiarato Walter Biot, l’ufficiale di Marina arrestato. Perché signori, per quanto l’indignazione sia merce a buon mercato e di grande effetto di questi tempi, i funzionari diplomatici all’estero servono spesso e volentieri a questo. Contattano, blandiscono, corteggiano. E pagano. Altri funzionari, militari, industriali. Anche giornalisti. Non a caso, le residenze diplomatiche pullulano di agenti dei servizi di sicurezza. In tempi non lontani ospitavano vere e proprie centrali. E centri d’ascolto. Il cui compito, statutario, è informarsi. E spiare. Lo fanno tutti, mica soltanto i russi. Americani e israeliani in testa, chiedere referenze al riguardo rispettivamente al Bundesamt für Verfassungsschutz (BfV) tedesco e direttamente al Quai d’Orsay a Parigi.
Se la cosa vi pare strana, basti pensare che già nel 2018 Le Monde ha dedicato una serie di inchieste alle reti dello spionaggio internazionale nelle capitali europee. Ma forse anche Le Monde è divenuto, nel frattempo, testata degna di fact checking e scomunica per complottismo. Sicuramente, il fattaccio romano è accaduto. Le prove sono schiaccianti e palesi. Sicuramente, il timing scelto per far scattare l’operazione che ha posto fine a mesi di mercimonio di informazioni riservate è dipeso unicamente dal rischio di escalation nella livello di strategicità delle informazioni scambiate. Oggettivamente, però, a oggi l’unica certezza che abbiamo al riguardo è che sia stata posta la parola fine sull’ipotesi di adozione del vaccino Sputnik in Italia. Proprio mentre Germania e Francia ormai paiono apertamente – e giocoforza – orientate a una collaborazione con Mosca, qui la questione appare chiusa. Sparita dall’orizzonte.
Certamente la magistratura farà il suo lavoro e fornirà ulteriori informazioni, anche alla luce della volontà di collaborare del militare infedele. Ma non solo la politica sanitaria ha immediatamente patito il contraccolpo della spy-story romana. Anche quella parlamentare. Pensate davvero che l’onorevole Matteo Salvini sia andato a Budapest, scatenando le proteste dei suoi alleati di governo (ma non un plissé da parte di Mario Draghi), perché pensa di diventare maggioranza in Europa, facendo squadra con – udite udite – Polonia e Ungheria? Per favore. Ha fiutato l’aria. E ben conscio dell’affaire Metropol che ha già toccato il suo partito nel recente passato, ha capito che era giunta l’ora di inviare un segnale. L’Europa con quella visita non c’entra nulla. Non fosse altro per il fatto che farebbe decisamente ridere un fronte euroscettico formato dai tre Paesi che – insieme alla Spagna – stanno godendo maggiormente dei fondi Sure per il sostegno all’occupazione. In compenso, la Polonia sta divenendo sempre di più il referente principale degli Usa a ridosso del Baltico, anche in virtù di un sentimento anti-russo che ha radici storiche e a prova di congelamento. Basi militari americane in loco, per capirci. Mentre Viktor Orban è l’alleato chiave di Israele nell’Europa centrale, nonostante qualche genio lo dipinga come un fascista anti-semita, solo perché non accetta le scorrerie destabilizzatrici di quell’Hyperion 2.0 che è la Central European University.
Andando a Budapest, il segretario della Lega ha inviato un segnale di rottura del cordone ombelicale, ormai divenuto troppo scomodo, con la Russia. Con tempismo magistrale. E dal suo punto di vista, ha fatto bene. Perché nel silenzio generale, stanno succedendo cose molto pericolose. E non parlo del fatto che, come riportato da un sito tutt’altro che complottista come Politico, nessuno dei responsabili del cosiddetto tentato golpe al Congresso del 6 gennaio scorso finirà in galera nemmeno un giorno, notizia che ovviamente le varie RaiNews24 e La7 si sono ben guardate dal far notare, dopo aver scomodato nientemente che paragoni con l’11 settembre 1973 cileno. Casualmente, un altro pazzo semina il panico al Congresso, investendo due agenti e guadagnando la scena. Tempismo perfetto. No, mi riferisco ad altro. Un qualcosa che andrà in onda oggi negli Usa su una televisione decisamente establishment come la CBS all’interno del programma Sunday morning: una bella intervista di Tracy Smith con Hunter Biden, figlio del Presidente statunitense. E cosa dice il rampollo del Delaware? Dopo mesi e mesi di negazione dell’evidenza, forse dovuta alla campagna elettorale di papà, il nostro eroe ammette che il famoso laptop in cui erano contenute le rivelazioni dei suoi affari in Ucraina e Cina, di cui il famoso babbo era più che a conoscenza, oltre a decine di foto scollacciate di ragazze molto giovani, could be mine. Potrebbe essere suo.
E, guarda caso, immediatamente parte la controffensiva: a trafugarlo, piratarlo e hackerarlo sarebbero stati però con ogni probabilità agenti russi. In questo periodo, decisamente di gran moda. Anche in questo caso, dubito che i Majakovsky nostrani delle veline del Dipartimento di Stato garantiranno molto spazio alla notizia. Nonostante la fonte più che autorevole. E la questione si fa seria, perché il ritorno in auge della pista ucraina rispetto agli affari esteri della famiglia Biden fa il paio con una serie di avvenimenti – tutti debitamente ignorati – accaduti nell’ultima settimana.
In primis, stando a quanto riportato dal New York Times, la messa in allerta dei Paesi europei da parte del comando militare americano nel Vecchio Continente (EUCOM) proprio rispetto al rischio di una «potenziale, imminente crisi nell’Est dell’Ucraina, area dove ormai il cessate-il-fuoco è definitivamente saltato». E dove, stando alla Reuters, da qualche giorno a questa parte, la Russia starebbe ammassando truppe con allarmante magnitudo e rapidità di dispiegamento. E la riposta offerta dal Cremlino alle preoccupate domande che giungevano dall’estero al riguardo fa capire quale aria cominci a spirare: «Dato che le truppe rimangono comunque all’interno di confini interamente russi, cosa facciano e dove vadano non sono interessi altrui ma soltanto questione interna». Il tutto, mentre il comando Nato a Bruxelles emetteva (30 marzo) un comunicato ufficiale nel quale si rendeva noto come velivoli dell’Alleanza avessero tracciato sorvoli di caccia russi nello spazio aereo europeo per dieci volte in sei ore, «un raro picco di attività ostile». E proprio la sera del Venerdì Santo, sempre la Reuters dava conto del durissimo avvertimento inviato dal Cremlino proprio alla Nato: dopo aver ricordato alle autorità di Kiev che «ogni seria escalation nel Donbass potrebbe portare alla distruzione dell’Ucraina», Mosca ha comunicato all’Alleanza atlantica che «in caso venissero suoi constatati dispiegamenti di truppe all’interno dell’Ucraina, verranno immediatamente approntate misure supplementari per garantire la nostra sicurezza».
Il 26 marzo, d’altronde, il cargo battente bandiera statunitense Ocean Glory attraccava al porto di Odessa, carico di 350 tonnellate di equipaggiamento militare, inclusi veicoli tattici (35 humvees): la fornitura diretta di hardware bellico più grande mai compiuta da Washington a favore di Kiev. E la reazione americana non è tardata, visto che sempre venerdì e nella sua prima telefonata ufficiale con il presidente Volodymyr Zelensky dal giorno dell’insediamento, Joe Biden avrebbe ribadito «il totale supporto statunitense verso l’integrità territoriale ucraina», condannando quella che ha definito «la strisciante aggressione della Russia nel Donbass e in Crimea». Proprio alla vigilia dell’imbarazzante intervista del figlio con la CBS. E mentre le brigate filo-russe della DNR (Repubblica Popolare di Donetsk) annunciavano la coscrizione militare per tutti i cittadini nati fra il 1994 e il 2003.
Notizie al riguardo nei telegiornali? Zero. In compenso, una magnificazione senza soluzione di continuità e a reti unificate del piano di stimolo e infrastrutturale della Casa Bianca. Oltre, ovviamente, al pazzo investitore del Congresso e al solito bollettino ospedaliero, virologico e farmacologico. Ma come se tutto quanto raccontato finora non bastasse, notizie poco rassicuranti arrivano anche dal fronte cinese. Se infatti la BBC ha reso noto urbi et orbi di aver trasferimento in via definitiva i suoi corrispondenti da Hong Kong a Taiwan, stante la totale assenza di garanzie ormai vigente nella ex colonia britannica, Pechino ha alzato il tiro delle minacce. Questa volta con un avvertimento durissimo e quasi senza precedenti verso il Giappone, relativamente alla disputa sulle Isole Diaoyu (Senkakus Islands per i giapponesi). Di fatto, un proxy, un parlare a nuora perché suocera intenda. Un chiaro segnale di non interferenza proprio nella questione inerente a Taiwan, quasi a voler prevenire – con linguaggio ruvido e non soggetto a interpretazioni – un allineamento di Tokyo alla nuova politica del Dipartimento di Stato Usa nell’area del Pacifico.
Insomma, il caos. Tutto riassumibile in un grafico, capace come pochi di mettere le cose in prospettiva: il secondo trimestre di quest’anno è cominciato non solo con l’ennesimo record storico battuto da Wall Street, ma, soprattutto, con il secondo livello di espansione dei multipli di utile per azione più alto dal 1901. Insomma, stiamo vivendo in tempi di stimolo all’economia da periodo bellico. Ma senza avere valutazioni da periodo bellico. Almeno fino a oggi, perché mancava un contesto bellico. Ma i tamburi di guerra cominciano a rullare, il vecchio caro warfare starebbe per dare il cambio al Covid nel sostegno di economie strutturalmente indebitate e mercati disfunzionali e manipolati, come quello rappresentato in quell’immagine.
Prepariamoci quindi al nuovo rally, quando il piano Biden perderà il tocco magico e lascerà intravedere solo la macelleria fiscale che lo finanzierà. A quel punto, servirà un boost. L’ennesimo. E un alibi per la Fed (e la Bce, la Bank of Japan, la Bank of Australia, la Bank of England. E la Pboc cinese). L’ennesimo.
Non ci credete? Come mai, allora, una parte dei fondi del Recovery Plan verrebbe destinata per rinnovare la capacità e i sistemi d’arma a disposizione dell’apparato militare, come risulta dalle Relazioni definite e votate in questi giorni dalle Commissioni competenti? Nel testo licenziato dalla Camera si raccomanda di «incrementare, considerata la centralità del quadrante Mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto. Per il Senato occorre, inoltre, promuovere una visione organica del settore della Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca». Viene inoltre ipotizzata «la realizzazione di cosiddetti distretti militari intelligenti per attrarre interessi e investimenti».
In una parola, warfare. Anche fra le mura di casa. In silenzio.
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