Ho aspettato un paio di giorni prima di toccare l’argomento, tanto per leggere e ascoltare tutte le analisi e le vulgate. Ora, però, dopo lunga e meditata riflessione, trovo giusto estendere anche a voi il quesito che turba i miei sonni rispetto alla rottura tra Mef e Unicredit sull’acquisizione di Monte dei Paschi: di grazia, perché quanto emerso dovrebbe sostanziarsi come una grana per il Governo Draghi? Parliamoci chiaro, quell’abboccamento fra Tesoro e istituto milanese rappresentava una pantomima fin dall’inizio. Andrea Orcel è manager troppo di lungo corso nel settore bancario per non conoscerne l’ABC, non a caso è riuscito a rifilare Antonveneta proprio a Mps, facendola pagare come se si trattasse di Goldman Sachs. Nel corso di una trattativa non è possibile restare sempre e comunque sulla sponda di chi tira la corda, ogni tanto occorre abbozzare. E concedere. Soprattutto quando la controparte non è un competitor privato, ma lo Stato. Ovvero, chi fa norme e regole. E che è meglio avere amico. O, quantomeno, non nemico giurato.
Le condizioni poste da Unicredit al Mef erano capestro fin da principio, un qualcosa di addirittura parossistico: un po’ come quei mariti stanchi di condurre la doppia vita e che cominciano a disseminare in giro per casa indizi del loro adulterio seriale, al fine di essere scoperti e chiudere con un’era di sotterfugi e menzogne. Casualmente, poi, il timing con cui si è consumata la rottura appare studiato a tavolino. A quattro giorni dalla data odierna, fissata dalla banca di piazza Gae Aulenti come deadline inderogabile per passare dalle parole ai piani operativi: insomma, entro oggi occorreva mettere nero su bianco. Detto fatto, lo Stato ha dovuto tirarsi indietro. Ma la scenografia era pronta, il fondale pressoché perfetto.
Sul finire della scorsa settimana, infatti, Standard&Poor’s ha pubblicato il suo giudizio sull’Italia, confermandone il rating BBB ma alzandone l’outlook da stabile a positivo. Casualmente, la nota conteneva una parte specificatamente dedicata al capitolo Mps. Anzi, ai rischi che una cessione ad altro istituto troppo onerosa a carico dello Stato potessero rappresentare per i conti pubblici e l’equilibrio dell’intero comparto, già in fase di Risiko a partire da Generali e Mediobanca. Che strano, sembrava un qualcosa di chiamato. Detto fatto, a 24 ore dalla messa in guardia dell’agenzia di rating Usa, ecco che Reuters spara lo scoop della rottura delle trattative fra Mef e Unicredit: tutto a mercati ancora chiusi, quindi con altre 24 ore per metabolizzare il tutto.
Senza poi contare il fatto che Mario Draghi abbia incontrato Emmanuel Macron in un vertice bilaterale a Bruxelles prima dell’inizio del Consiglio europeo, proprio nel giorno del report di Standard&Poor’s: fuori dalla scena Angela Merkel (e il falco Jens Weidmann in ambito Bce-Eba), forse il presidente del Consiglio ha tastato il terreno per ottenere un sostegno pesante e sostanziale in sede europea, conscio di quanto stava per accadere e quindi della necessità per lo Stato di rimanere nel capitale di Mps oltre la scadenza del 31 dicembre fissata dall’Europa? E, magari, fra una parola e l’altra, si è toccato anche il tasto di Axa, già in partnership con Mps sul ramo dei prodotti assicurativi e magari da giocare come plus per ingolosire i tifosi del mitologico terzo polo bancario in vista dell’aumento di capitale da 3 miliardi che ora si renderà necessario?
Solo coincidenze, ovviamente. Resta un fatto: perché per Palazzo Chigi questa dovrebbe rappresentare una grana? Per la vecchia storia del Draghi a capo di Bankitalia che diede il via libera all’operazione Antonveneta orchestrata proprio da Orcel, all’epoca consulente di Santander? La conosciamo noi, il 99% delle popolazione non sa nemmeno di cosa si tratti. Così come poco importa alla gente, spaventata da Covid, green pass e bollette, del fatto che a capo del Cda di Unicredit ci sia l’ex ministro Pd, Pier Carlo Padoan. Tutta la politica, a partire dal presidente della Regione Toscana, plaude al fallimento del negoziato: Mps non deve essere svenduta! In effetti, una banca così profittevole e capace di generare utili non può essere sacrificata, occorre pompare un altro po’ di denaro pubblico per mantenerla in vita e garantire la mitica continuità occupazionale al suo esercito di dipendenti. L’Alitalia delle banche, insomma. Con un carico politico tutt’altro che simbolico, a partire dalla Fondazione.
Paradossalmente, se come certamente accadrà, il presidente del Consiglio riuscirà a strappare una sostanziosa proroga temporale all’Ue e magari anche una deroga agli aiuti di Stato che consenta un ulteriore finanziamento (magari con una bella modalità back-door), potrà addirittura intestarsi una vittoria di stampo autarchico e nazionalista, roba che finora apparteneva unicamente al bagaglio culturale dell’economia francese. Insomma, un risultato sovranista da vendere in sede di Consiglio dei ministri. E di equilibri interni alla coalizione di governo. Pensate che la sviolinata pro-Draghi suonata da Oltreoceano dal ministro Giorgetti sia frutto di piaggeria personale? Se Mps non viene svenduta, resterà anzi autonoma e italiana e tutelerà i dipendenti, come potrà la Lega rompere sui temi economici più caldi, pensioni in testa? E se addirittura si arrivasse davvero a un prodromo di terzo polo bancario che rappresenti le PMI e i territori e non i trading desks, già ampiamente presenti nelle attenzioni della politica tramite Unicredit e Intesa, come potrà Matteo Salvini mettersi di traverso, quando la stessa Europa che vorrebbe maledire per l’agenda che sta dettando al governo Draghi sta di fatto garantendo tempo e deroghe al futuro autonomo di Mps?
Sarebbe questo il quadro che vede il presidente del Consiglio nei guai, forse? Se sì, vorrei averne io di guai del genere nella vita. E tanti. Questa è la classica situazione win-win per l’ex governatore della Bce, altro che ostacolo. E questo epilogo non è frutto del caso o dell’inconciliabilità congiunturale delle parti in una logica di mercato, è semplicemente il punto di snodo di una pantomima orchestrata ad arte fin da principio. Forse, addirittura fin dalla scelta stessa di bypassare il principio di sovranità popolare e piazzare d’imperio Mario Draghi a palazzo Chigi. Mps ci costerà ancora molto cara, in qualità di contribuenti italiani? No. Ma lo farà a livello di do ut des politico e fiscale verso Bruxelles, non a livello di intervento di Mef o Cdp. Usando una termologia brutale, la Commissione Ue sta già preparandoci tutto un conto. La presentazione? A breve. Non a caso, Maurizio Landini nell’arco di una settimana è passato dal fraterno abbraccio con Mario Draghi alla minaccia di sciopero generale sulle pensioni. Come i lupi, ha fiutato l’aria. E ha sentito odore di fregatura epocale, più che di neve.
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