Oggi è uno di quei classici articoli che si scrive con il pilota automatico e in ossequio al giochino della Settimana enigmistica: basta unire i puntini. Certo, ultimamente provare a guardare oltre il tendaggio damascato delle realtà ufficiale equivale quasi in automatico al proprio arruolamento involontario nell’esercito vituperato dei cosiddetti complottisti ma, cari lettori, ricordatevi e sempre e soltanto una cosa. Diffidate come la peste di chi ricorre troppo spesso al rasoio di Occam per interpretare la realtà. Solitamente o è in malafede o prezzolato o troppo stupido per guardare al di là del proprio naso, quindi si trincera dietro l’evidenza che l’acqua sia bagnata. Detto questo, se c’è un dato di fatto evidente dell’ultimo periodo è che le elezioni presidenziali Usa abbiano avuto una coda quantomeno irrituale, senza precedenti. A partire dalla palese e sguaiata accusa di brogli da parte di Donald Trump fino alla non concessione della vittoria al proprio concorrente, ancora 25 giorni dopo la chiusura delle urne. Ma si sa, essendo la più grande democrazia del mondo, possono permettersi il lusso di qualche licenza, fra gli applausi deferenti dei sudditi.



Ma l’atto che maggiormente avrebbe dovuto far non solo drizzare le antenne ma anche invitare quella sorta di bambino politicamente ritardato di nome Europa a chiedere conto di cosa diavolo stesse combinando l’America, pronta a rimettersi alla guida del mondo stando alla promessa/minaccia di Joe Biden, è avvenuto nel silenzio pressoché generale il 22 novembre scorso, quando il presidente eletto già annunciava i primi nomi del suo gabinetto e confermava contatti e tavoli di lavoro operativi. Il premier israeliano Benjamin Nethanyahu si è recato insieme al capo del Mossad, Yossi Cohen, in Arabia Saudita, dove i due hanno incontrato l’erede al trono del Regno, Mohammed bin Salman e – guarda le coincidenze – il capo del Dipartimento di Stato Usa, Mike Pompeo, giunto all’ultima tappa del suo tour mediorientale. Un viaggio ufficiale ma decisamente poco rituale, quantomeno nelle modalità: il premier israeliano sarebbe infatti decollato da Israele alle 17 a bordo di un volo privato e avrebbe fatto ritorno poco dopo la mezzanotte, ricostruzione fornita dal quotidiano Haaretz e confermata da fonti saudite. Poco formale e molto simbolica anche la sede dell’incontro, tenutosi infatti a Neom, la cosiddetta Città del futuro sulle rive del Mar Rosso, progetto urbanistico che nelle mire di Ryad e nel piano Vision 2030 del rampante bin Salman dovrebbe infatti tramutarsi in una delle smart city più importanti e avveniristiche al mondo. A tal fine, in molti vedono spiegato il coinvolgimento della Start-up nation per antonomasia, Israele appunto.



Ma al netto dell’ufficialità dell’agenda, a nessuno può sfuggire come la visita assuma una valenza geopolitica fondamentale in vista del cambio di guida alla Casa Bianca e alla luce della normalizzazione dei rapporti fra Israele ed Emirati Arabi Uniti dello scorso agosto, seguita poi da quella con Bahrein e Sudan. Il percorso appare avviato, di fatto. Proprio in seguito all’accordo di agosto, Ryad diede via libera al permesso di sorvolo del proprio spazio aereo ai velivoli israeliani. Inoltre, molti analisti si dicono certi che i Paesi protagonisti delle normalizzazioni dei rapporti con Tel Aviv, mai avrebbero dato vita a una scelta simile senza l’ok informale ma vincolante di quello che rimane il perno dell’asse sunnita in chiave anti-iraniana. Cioè, Ryad. Il principe ereditario, molto più attento al business che alle posizioni ideologico-confessionali della vecchia guardia del regime, spinge per accelerare la normalizzazione dei rapporti. Soprattutto, in vista di un possibile irrigidimento dell’amministrazione Biden nei confronti dei sauditi, quantomeno nel brevissimo termine e con intento dissimulatorio dopo gli anni di spudorati tappeti rossi tributati da Donald Trump.



Insomma, cominciamo a unire qualche puntino. Il premier dello Stato ebraico e il capo del suo temibile e micidiale servizio segreto volano per un blitz nella patria del fondamentalismo sunnita di matrice wahabita. Di fatto e formalmente, Nicola Berti che entra in un Milan Club con la sciarpa dell’Inter al collo e ricordando il gol nel derby. Ma non basta. Il ministro degli Esteri ormai uscente dell’amministrazione Usa è ben felice di adempiere al ruolo di mediatore officiante dell’incontro, dopo aver per quattro anni ammansito e coccolato il regime che – prove alla mano – non solo fa sparire giornalisti scomodi nelle proprie ambasciate e ne seppellisce le parti smembrate come uno Stevanin qualsiasi, ma che vent’anni fa era alla guida dell’atto costato la vita a 3.000 americani a New York, una mattina di sole di settembre. Tutto normale. Perché il business è business. E, soprattutto, la legge del beduino è l’unica che davvero conta, quando ormai la rozzezza della trattativa diventa legge della giungla e assume il comando delle operazioni. Il nemico del mio nemico è mio amico, recita. E quale nome salta fuori, unendo questi primi puntini? Iran.

Veniamo a venerdì, 28 novembre. Poco meno di una settimana dopo l’incontro di Neom, stranamente coperto in ogni suo risvolto dalla stampa, nonostante la rigida censura militare israeliana che in passato – anche recente – aveva “nascosto” certe attività diplomatiche. Forse, faceva comodo che questa visita fosse nota. Quasi servisse un alibi. Magari al contrario, in ossequio al rasoio di Occam. Cos’è accaduto il 28 novembre? L’Opec Plus, di fatto l’organizzazione nata informalmente nel novembre 2016, quando al cartello dei produttori petroliferi storici si unirono per potenziare la politica dei tagli all’output anche soggetti esterni, in primis la Russia, rendeva nota la propria volontà di estendere la politica di contenimento della produzione per altri 2-3 mesi e aumentarla fino a 7,7 milioni di barili al giorno. Ma, sottolineando come un accordo in tal senso possa ancora essere soggetto a veti incrociati dei Paesi membri, si rimandava tutto a un meeting in videoconferenza da tenere la prossima settimana.

Ed eccoci al tardo pomeriggio, ora italiana: il capo degli scienziati nucleari iraniani, Mohsen Fakhrizadeh, muore in un attentato lungo una strada del quartiere da Damavand, a est di Teheran. Professore di fisica all’Imam Hussein University della capitale, ex numero uno del Physics Research Center e brigadiere generale dei Pasdaran, lo scienziato era noto in Israele come l’Oppenheimer degli ayatollah. Ovvero, l’uomo delle armi nucleari. Immediata la condanna iraniana e il dito platealmente puntato contro Israele, pista confermata ieri anche dal New York Times. Il tutto, a meno di una settimana dalla visita in Arabia Saudita, officiante un Mike Pompeo stranamente ringalluzzito dalla sconfitta elettorale del suo commander-in-chief.

Unire i puntini, qui, appare fin troppo facile. Troppo, appunto. Più che altro, alla luce proprio della grancassa mediatica offerta dalla stampa israeliana al blitz saudita di Nethanyahu e del capo del Mossad. L’alibi, appunto. Se avessero avuto in mente un colpo simile, in pieno giorno e nella tana del nemico, certamente non avrebbero permesso l’ufficialità mediatica di una visita così compromettente, quantomeno a livello di tempistica. Cosa manca al quadro? Il fatto che, stando a un articolo di OilPrice.com, l’Arabia Saudita sarebbe vagamente nei guai finanziari. E non più per un deficit a doppia cifra, bensì perché la propria assicurazione sulla vita – leggi il collocamento di Aramco – si sta rivelando per quello che è: un salasso totale. Pur di non perdere la faccia di fronte al mondo, infatti, Ryad non solo arrivò all’atto un po’ disperato dell’esercizio dell’opzione di green shoe a un solo mese dell’Ipo ma, peggio ancora, promise dividendi stratosferici agli investitori. I quali, oggi, vogliono essere pagati. Avanti di questo passo, l’indebitamento diretto e tramite emissioni obbligazionarie di Aramco per onorare le proprie promesse rischia di costare più degli introiti miliardari – e all’epoca da record assoluto – del collocamento.

Parliamo di qualcosa come 18,75 miliardi di dollari per trimestre o 75 miliardi l’anno, denaro che a detta di qualcuno sarebbe stato possibile racimolare attraverso tagli al budget o al CapEx annuale. Peccato si sia già oggi, alla luce dei 37,5 miliardi di dollari di scadenze relative ai primi due trimestri di quest’anno, a un livello che supera e di parecchio i soli 21,1 miliardi di free cash flow del medesimo arco temporale. Insomma, un’Alitalia saudita che brucia denaro ogni singolo giorno. Non a caso, non solo Aramco ha dovuto sospendere l’attività di quello che era il suo gioiellino produttivo, ovvero l’impianto crude-to-chemicals di Yanbu sul Mar Rosso, valore 20 miliardi di dollari, ma per quanto riguarda la prima metà di quest’anno l’azienda saudita ha dovuto fare i conti con un crollo del 50% dei profitti netti, anticipando un altro -44,6% relativo al terzo trimestre, passando da 79,84 miliardi di ryal del 2019 agli attuali 44,21 miliardi. Ed essendo l’Ipo di Aramco il porcellino che Mohammed bin Salman intendeva prima riempire di denaro e poi frantumare per finanziare il suo progetto di scalata al potere egemonico – in patria e nella sfera di influenza sunnita – Vision 2030, ora qualche rognetta di staglia all’orizzonte. Soprattutto se Joe Biden, almeno per i primi tempi, eviterà di seguire il rivoltante esempio di piaggeria del suo predecessore verso Ryad. E con le quotazioni del petrolio che, nonostante le prospettive di miglioramento nel medio termine dell’outlook economico globale innescate dagli annunci a ripetizioni sui vaccini, restano comunque ben sotto il break-even fiscale minimo necessario per le casse esangui del Regno, occorre fare qualcosa.

In primis, garantirsi un alleato di peso come Israele, in caso gli Usa facessero gli schizzinosi per un po’, tanto per salvare le forme. Secondo, per alzare un po’ la tensione nell’area, utilizzando la carta disperata dei rinnovati venti di guerra totale fra Iran e Israele-Usa in combinato con le speranze di reflazione post-Covid, certificate in queste ore anche dall’aumento costante delle valutazioni del rame, oggi ai massimi dal 2013 e dal contemporaneo crollo dell’oro. Unite gli ultimi puntini, ora. Uscirà una sola parola: petrolio. La solita, vecchia dinamo geopolitica. L’alibi supremo.

Ryad deve a ogni costo uscire dallo schema Ponzi in cui si è tramutato il collocamento di Aramco. Quindi, nel momento del bisogno, gli amici devono dare una mano. E sicuramente, in base all’esperienza e al rasoio di Occam, a breve avremo prove schiaccianti su come l’Iran stesse preparando la madre di tutte le bombe atomiche da usare contro Israele. Attendiamo fiduciosi.