“Ho mandato un sms a Bonaccini con la foto del monitor che ho sulla mia scrivania: in soli due giorni, per effetto del voto in Emilia Romagna, lo spread è sceso di 20 punti. Ho fatto calcolare dai miei tecnici che questo produrrà 400 milioni di risparmi quest’anno, 1,2 miliardi nel 2021 e oltre 2 miliardi nel 2022”. Parole e musica del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Ora, non so voi, ma a me viene abbastanza da piangere. Proprio una questione di sconforto profondo, quella sensazione di privazione delle forze che soltanto la constatazione dell’irreversibile sa portare con sé. Quasi una crisi ipoglicemica della speranza. Perché finché certe cose le si legge in articoli più o meno informati sul tema, uno prende atto e se ne fa una ragione. Ma quando a sostenere una mostruosità e un abuso della realtà simili è l’uomo chiamato a guidare il Mef, tutto assume contorni differenti.



Ora, per l’ennesima volta, diciamolo chiaro: la vittoria di Bonaccini e la sconfitta del molestatore citofonico non c’entra assolutamente niente con lo spread e la volontà di acquisto dei nostri titoli da parte degli investitori esteri. Proprio nulla. E non lo dice il sottoscritto, ci pensa questo grafico a mettere le cose in prospettiva: nei 7 giorni di trading che hanno portato al 27 gennaio scorso, il controvalore di bond con rendimento negativo a livello globale è cresciuto di 1,5 triliardi, tornando a quota 12,39 triliardi.



Insomma, i timori legati al coronavirus cinese e alle conseguenti mosse di governi e Banche centrali hanno scatenato l’ennesima corsa verso i beni rifugio, acuitasi poi da lunedì in poi a causa del precipitare della situazione a Wuhan. Non a caso, anche il prezzo dell’oro nel medesimo arco temporale è schizzato. Si fugge dai rischi dell’azionario e ci si rifugia, per l’ennesima volta, nelle certezze (quantomeno, percepite e apparenti) dell’obbligazionario, spingendo in questo modo i rendimento globali ai minimi storici. In Emilia-Romagna, stante questo trend e la magnitudo e rapidità dell’escalation in negativo del virus dopo le rassicurazioni iniziali di Pechino, avrebbe potuto vincere anche un naziskin pluri-tatuato: lo spread, comunque, non si sarebbe impennato. Magari sarebbe rimasto soltanto fermo o cresciuto di 2,3 punti base ma quando al mondo le dinamiche sono queste, si compra qualsiasi cosa garantisca un reddito.



Ora, io sono certo che il ministro Gualtieri di queste cose ha contezza, ma non so se è più preoccupante il tarlo del dubbio residuo rispetto alla sua consapevolezza sul tema o la quasi certezza dell’atteggiamento di parte e ideologico insito in quella dichiarazione di inizio articolo, roba da far quasi rimpiangere il dinamico duo, i Batman e Robin dell’Italexit. Al secolo, Borghi e Bagnai. Ora però la questione diviene di prospettiva: davvero il coronavirus cinese può rappresentare il mitologico tipping point per i mercati internazionali, il punto massimo e di non ritorno, visti i carichi di indebitamento generale e l’obbligo ormai conclamato per le Banche centrali di continuare a stimolare sempre di più e in maniera sistemica le economie?

Un consiglio: date poco retta alla Borsa, almeno in queste prime fasi ancora molto convulse. Come avete potuto notare, ai cali drastici di lunedì sono seguiti i rimbalzi estesi di martedì: si opera, ancora più del solito, in modalità rabdomante. Qualche certezza garantita dai precedenti storici, però, c’è. La prima ce la offre questo grafico, il quale ci mostra come dalla crisi legata all’esplosione del contagio da Aids di inizio anni Novanta in poi, il mercato azionario si sia sempre rivelato immune alle epidemie. Ovvero, ci ha guadagnato.

Addirittura, proprio il precedente cinese della Sars ha garantito un market return a sei mesi di oltre il 20%. Ogni crisi, infatti, raggiunge un punto di svolta, cioè quando si intravede una via d’uscita e allora si punta forte sui motori stessi di quella riscossa: in questo caso, ad esempio, i titoli del comparto farmaceutico potrebbero rivelarsi degli ottimi locomotori di sostegno. C’è poi l’effetto Banche centrali, ovvero il fatto che un’emergenza simile comporta immediatamente dei ricaschi sull’economia reale del mondo intero, ciò che in gergo viene chiamato corporate fallout. Dalle linee aeree al comparto turismo, dalla manifattura con le fabbriche chiuse per evitare il contagio ai consumi personali spinti al minimo per le quarantene in atto: tutto sembra operare in favore di una contrazione dei dati di crescita, tutto si pone come freno ulteriore al Pil.

Ecco quindi che, in un momento simile, ogni tabù pare cadere: le Banche centrali rientrano ufficialmente in campo, oltretutto con modalità forza quattro. Di emergenza in emergenza, come accade almeno da sette, otto anni a questa parte. C’è però un dato che mi fa paura, questa volta. E non fa riferimento al virus in sé e alle sue potenzialità di contagio, bensì alla radice reale del rallentamento che rischiamo in maniera miope di ascrivere unicamente proprio all’emergenza sanitaria. Scambiato causa ed effetto, detonatore e carica esplosiva. Guardate questo ultimo grafico, ci mostra come da dieci giorni a questa parte, esattamente l’arco temporale che ha visto il coronavirus trasformarsi da fenomeno contenuto a pandemia con tratti globali, il rame stia letteralmente precipitando a livello di prezzo. E come sapete, il rame è la commodity che maggiormente garantisce tracciature anticipatorie rispetto al trend dell’economia reale, dell’industria e dei settori strategici della produzione. E il più macro di tutti gli indicatori legati alle materie prime, tanto che viene con deferenza chiamato Mr. Copper fra gli analisti.

Ora, guardate l’ambito comparativo preso in esame dal grafico: chi avrà ragione, l’indicatore macro dell’economia cinese rappresentato dalla linea verde o il trend di valutazione del rame, cioè la linea rossa con direzione verso il precipizio nell’ultimo periodo? Perché alla fine, è tutta un questione di re-coupling, quando si arriva a contesti di biforcazione simile fra due voci strettamente correlate come queste. Cosa può accadere? Sostanzialmente, due cose. Primo, il coronavirus si dimostra molto meno letale e rapido nella diffusione di quanto non appaia in queste ore, addirittura magari si trova un vaccino in tempi record. E, contemporaneamente, le Banche centrali danno vita a uno sforzo quasi sincronizzato di sostegno alla crescita: Cina, Usa e Ue, tutti a stampare. A quel punto, è più che probabile che la linea rossa cambierà trend e comincerà la sua risalita verso la congiunzione (quantomeno, di corso prospettico) verso quella verde dei dati macro cinesi (temo frutto di doping nella contabilità).

La seconda ipotesi, però, è quella che maggiormente mi fa paura, il mio timore/sensazione attuale. Ovvero, il coronavirus non rappresenta in sé e per sé un Lehman moment inteso come “cigno nero” che arriva a spazzare via una situazione di calma apparente con il suo carico di criticità insondabili, imprevedibili e ingestibili. Bensì, solo un reagente. Insomma, io temo – e non da oggi – che lo stato di salute dell’economia cinese sia stato grandemente amplificato ed edulcorato da Pechino almeno negli ultimi tre anni e che ora quelle criticità, principalmente legate al calo delle domanda estera e all’indebitamento strutturale interno andato fuori controllo, stiano esplodendo. Anzi, stiano mutando da trasparenti e inosservabili a occhio nudo in palesi e conclamate. Come certe impronte digitali negli episodi di CSI New York: basta una spruzzata di spray o una passata di luce bluastra e tutto emerge, la verità salta fuori. Ecco, io temo che il coronavirus si paleserà alla fine esattamente come quello spray o quella luce bluastra.

Il che, intendiamoci, non rappresenta di suo una tragedia: finché non conosci la malattia, infatti, è impossibile fare una diagnosi certa e trovare una cura efficace. Il problema è: in un mondo totalmente esposto a livelli di debito pubblico e privato insostenibili e con una leva di finanziarizzazione sui mercati azionari che vede tutti – ma proprio tutti – posizionati lunghi sugli indici da record di questi ultimi mesi, quanto occorrerà stampare e iniettare nel sistema, affinché nessuna delle mille criticità presenti vada fuori controllo? Basterà che la Fed continui con le sue aste quotidiane e, magari, abbassi i tassi di un quarto di punto? Basterà che la Pboc la smetta di tagliare unicamente i requisiti di riserva delle banche e lanci un Qe in piena regola, con prestiti agevolati a pioggia e con orizzonte temporale indefinito? Basterà che la Bce aumenti il volume di acquisto mensile, soprattutto sul lato corporate dell’offerta obbligazionaria, al fine di garantire alle aziende un canale di finanziamento sicuro e alternativo alle forche caudine di quello bancario tradizionale, stante anche lo stato di salute del comparto?

Signori, la questione è esiziale. Per il semplice fatto che ormai questa filastrocca emergenziale va avanti, fra Usa e resto del mondo, dal 2010. Quanti attrezzi ci sono, realmente, nella mitica cassetta evocata da Mario Draghi prima del suo addio? Quanto andrà “spaventato” il mercato, a livello di controvalore iniettato, visto che ormai l’effetto sorpresa del sostegno straordinario delle Banche centrali è pari a quello di un crollo del M5S a ogni tornata elettorale? Guardate al rame e al suo trend di valutazione, se volete capire qualcosa in più sul medio periodo e lasciate perdere per qualche tempo la Borsa e le sue reazioni fra l’isterico e il pavloviano. E sperate che quella linea rossa torni a salire o, quantomeno, si stabilizzi. Altrimenti, sono guai.

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