A inizio settimana ha fatto sensazione – e spedito il Nasdaq a -1,7% a stretto giro di posta – il commento del numero uno della China Banking Regulatory Commission, Guo Shuqing, a detta del quale la sua principale preoccupazione è quella legata alle bolle finanziarie in giro per il mondo, capaci di contagiare direttamente il mercato cinese. Di fatto, un Covid al contrario. Vero? Falso? Una risposta indiretta l’ha fornita la Banca per i regolamenti internazionali nella sua review trimestrale, partendo da questo grafico: pur concedendo che le valutazioni equity siano alte rispetto agli standard storici, la Banca centrale delle Banche centrali ritiene che non appaiano ancora eccessive, quando si prendono i considerazione i bassi tassi di interesse. 



Ecco quindi che il grafico mostra come l’Excess CAPE Yield di Robert Shiller, il quale compara i rendimenti sugli utili di lungo termine ponderati all’inflazione con quelli reali sui bond, sia oggi in perfetta media con l’ultima decade e a un livello doppio di quanto non fosse a fine 2018. Di fatto, l’indicatore privilegiato dei futuri eccessi nei returns azionari sui bond non sta mostrando bandierine rosse rispetto all’allarme partito dalla Cina. Ma attenzione, perché l’accusa di Pechino non è campata in aria. Quantomeno, se vista in prospettiva della propria latitudine di osservazione. Quella di questo grafico, il quale mostra plasticamente il vero timore del Dragone: gli spillovers dei vari cicli di Qe senza fine occidentali sui mercati azionari cinesi, ovvero il continuo afflusso di capitali esteri figli di una liquidità a ciclo continuo che necessita una logica da vaso comunicante per non tracimare al di fuori degli indici (come, in effetti, comincia a fare sulle dinamiche dei prezzi e nei trend delle commodities). 



E Pechino pare obbligata ad aprire sempre di più le proprio piazze verso investitori esteri, non fosse altro per una questione di bilanciamento del cambio sullo yuan. Insomma, questione di punti di vista. Ma nemmeno troppo. Perché questo terzo grafico parla chiaramente il linguaggio di una bolla ormai fuori controllo: da inizio anno, infatti, Wall Street ha visto nascere qualcosa come 175 Spac, capaci di raccogliere oltre 56 miliardi di capitale per collocamenti. Soltanto in febbraio, se ne sono contate 90 per un controvalore di 32 miliardi di dollari: il massimo mensile di sempre. 

Ma non basta: stando a calcoli di Goldman Sachs, se si continuerà con questo ritmo – definito dalla stessa banca d’affari insostenibile -, entro la fine del mese di marzo verrà superato il numero di emissioni dell’intero 2020! Questa non è una bolla, grande come una casa, pur se osservata dall’Italia e non dalla Cina? E attenzione, perché questo altro grafico mostra il grado di disperazione terminale del mercato attraverso un altro dei suoi proxies storici: il ritorno dei buybacks somiglia sempre di più a quello cinematografico dei morti viventi. E se per caso la Fed non dovesse operare una bella proroga alle deroghe sulla ratio Slr rispetto alle detenzioni bancarie di Treasuries, prepariamoci a un armageddon. Poiché in quel contesto, ogni singolo buyback operato si sostanzierebbe come una sforbiciata da parte degli istituti ai loro bilanci su entrambi i lati, operando su depositi, riserve e anche titoli di Stato. 



Insomma, un caos totale. Una sorta di perenne ultimo passo prima del precipizio, evitato unicamente dalla certezza silente ma auto-alimentante di Banche centrali che non possono permettersi il lusso di fare dietrofront. E’ mercato, però, questo? No. Ed ecco che, quindi, qualcuno cerca un’alternativa. Per dirla con Adam Tooze nella sua ultima newsletter, «le criptovalute sono il prodotto libertario degli sforzi neoliberisti di depoliticizzare la moneta». Insomma, un elemento di libertà. 

Non sono del tutto d’accordo, ma concordo su un punto: Bitcoin è l’unico granello di sabbia brechtiano in grado di inceppare la follia monetarista che sta trascinandoci verso un baratro senza fondo. È un elemento di destabilizzazione, un virus nel programma, un sassolino nella scarpa che rallenta la marcia verso il disastro. Non a caso, i banchieri centrali continuano a ripetete il contrario: ovvero che le monete digitali sono un accelerante verso la sciagura finanziaria. Detto da loro, evoca abbastanza plasticamente il concetto del bue che dà del cornuto all’asino. Ma attenzione, perché la follia di mercato sta travasando sempre più rapidamente. E questi due ultimi grafici ci mostrano due facce della medesima medaglia. 

Il primo è la fotografia della schermata di Google Finance: resa incondizionata, accanto alle monete fiat da qualche giorno è comparsa una sezione dedicata alle valutazioni in tempo reale delle criptovalute. Poco più che un atto simbolico? No, capitolazione. Non fosse altro perché uno dei massimi dirigenti di Google, Scott Spencer, vice-presidente del Product management, Ads privacy e sicurezza del gruppo, è noto nell’ambiente per essere uno dei più strenui censori di Bitcoin e soci. Ante litteram. Circa due anni fa, infatti, impose un bando alla pubblicità di criptovalute sulla piattaforma, di fatto disseminando le pagine di Google di alert sui pericoli insiti nelle monete digitali. Mesi dopo, alzò il tiro: purga staliniana verso tutti i contenuti legati all’universo cripto su YouTube. Di fatto, quest’ultima mossa scatenò tali proteste da portare Spencer a imputarla a non meglio precisati errori di sistema, spesso persistenti: talmente resistenti all’intervento tecnico da durare, in alcuni casi, ancora adesso. Oggi, invece, Google Finance apre a quel mondo. Addirittura con una finestra informativa fissa rispetto alle sue valutazioni, condivisa con Nasdaq e dollaro: nulla di più establishment. D’altronde, i tempi cambiano. I grandi investitori istituzionali stanno sempre più abbandonando l’oro – vedasi i continui outflows dagli Etf aurei – e spostandosi verso Bitcoin come asset rifugio alternativo. 

Non a caso, il secondo grafico mostra come Bitcoin stia pedissequamente tracciando le aspettative previste dal suo modello stock-to-flow, il quale presuppone quota 100.000 dollari entro fine di quest’anno e 1.000.000 entro il 2025. E attenzione, perché proprio in questi giorni di caos sui mercati in chiaro, l’ammontare di Bitcoin trattato sulle piattaforme sta continuando a calare, sintomo che i Bitcoiners stanno ricominciando ad accumularlo. In attesa di cosa, quindi, si sta stoccando invece di contrattare in nome degli short-term gains? Forse, si attende il Big Bang. 

E non guardate alle detenzioni strombazzate di Tesla, quelle sono soltanto specchietti per le allodole e cortine fumogene che Elon Musk utilizza per mascherare le criticità della sua creatura, la quale sta patendo proprio in questi giorni una clamorosa erosione di quote di mercato da parte della Ford Mustang Mach-E, stando all’ultimo report di Morgan Stanley. È altrove che sta l’azione. Ne è convinto Tim Draper, investitore e miliardario, il quale – interpellato da CoinTelegraphha di fatto tracciato le vere linee nella sabbia: prima sarà Netflix la prossima a gettarsi nella diversificazione di investimento verso Bitcoin fra le 100 aziende tracciate da Forbes, poi toccherà alla vera rivoluzione. «Penso che Amazon comincerà ad accettare Bitcoin abbastanza presto. D’altronde, sono anni ormai che i suoi clienti riescono ad acquistare prodotti con criptovalute in maniera indiretta», ha sentenziato, scoperchiando un vaso di Pandora con la nonchalance con cui si apre un pacchetto di Marlboro. A quel punto, i grafici del modello stock-to-flow andranno stracciati e rifatti da capo. Utilizzando un formato A3, però. 

Attenzione a cosa sta accadendo sottotraccia, perché il silenzio calato nuovamente attorno a Bitcoin – in contemporanea con le tensioni reali di mercato di questi giorni, inflazione e tassi in testa – non è affatto casuale.

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