Il Pil della Russia nel 2022 si contrarrà del 6%, lo ha confermato martedì il Fondo monetario internazionale. Soltanto il 19 aprile, la stessa organizzazione vedeva la crescita di Mosca in negativo dell’8,5%. Scommetto fin da ora con chiunque che, tempo la fine del terzo trimestre, il segno negativo dimezzerà e si fermerà al 3%.
E fin qui, parliamo di previsioni ufficiali. Vi invito in tal senso a una semplice ricerca sulla Rete: quando ancora la propaganda delle sanzioni faceva flettere i muscoli e gonfiare l’ego di certi Rambo da redazione, il consensus generale era addirittura per uno sprofondo del 15%. Il tutto con un default sulle obbligazioni sovrane ormai alle porte e pronto a far precipitare il Paese in una crisi stile 1998.
Ovviamente, erano tutte idiozie. Come lo erano le 1.257 malattie attribuite a Vladimir Putin, come confermato l’altro giorno nientemeno che dal numero uno della CIA. O il fatto che l’esercito di Mosca fosse ridotto a combattere con fionde e cerbottane, tanto da vedere il trionfo militare di Kiev dietro l’angolo. Potrei continuare per un po’ a elencare le panzane della propaganda. Ma direi che già questo basta.
In compenso, mentre il Fmi snocciolava i suoi nuovi tagli drastici del Pil globale, il prezzo del gas ad Amsterdam festeggiava l’accordo europeo sui tagli nei consumi con un ulteriore 10% di aumento rispetto alla prima seduta di contrattazione della settimana e un balzo a 199 euro per MWh, come mostra il grafico. In due giorni, +20% e un trend che si avvicina pericolosamente al record storico dello scorso 7 marzo, quando si toccarono i 220 euro per MWh. Record battuto ieri mattina, quando i futures sono arrivati a 227 euro per MWh, salvo ritracciare sotto quota 200 euro all’ora di pranzo.
Sintomo di volatilità da incertezza. E speculazione, combinato spaventoso per chi deve riempire gli stoccaggi. Praticamente, la certificazione di morte autunnale per qualche milione di pmi. Ora, al netto della propaganda europea, se un compromesso che doveva porsi come prodromo all’indipendenza dal gas russo genera una reazione simile sulle dinamiche di valutazione dei futures del Dutch, a vostro avviso cosa significa? Che è un buon accordo o che si tratta dell’ennesima cantonata?
Ed evitiamo di legare quel balzo alla decisione di Gazprom di tagliare ancora i flussi attraverso Nordstream 1, scesi da ieri al 20% della capacity totale: quell’avviso è arrivato lunedì. A far volare le quotazioni è stata la scelta Ue, la quale porta con sé non tanto i germogli di una crisi strutturale ormai alle porte, bensì la quasi certezza che le istituzioni di Bruxelles proseguiranno con la loro politica suicida verso Mosca.
Mettiamola così, tanto perché possa capire anche un labrador: più sanzioni e più armi a Kiev uguale a meno flussi di gas verso l’Europa. È semplice. Talmente semplice che potrebbe (anzi, dovrebbe) capirlo anche l’Ue. E invece, nulla. E la questione più preoccupante sta nelle dichiarazioni rilasciate in tal senso dal ministro Cingolani, all’uscita dal vertice che ha sancito il via libera ai tagli concordati. Il nostro Paese vedrà le sue disponibilità limitate fino al 31 marzo 2023 (in caso di emergenza) del 7%, un obiettivo che era già contemplato nel piano del Governo. Ma è il trionfalismo verso le riserve a far preoccupare: a detta di Cingolani, sarebbero ormai al 70% e quindi entro fine anno il nostro Paese sarebbe quasi indipendente dal gas russo.
Ora, usiamo una metafora calcistica, in modo che tutti capiscano: un allenatore, a vostro avviso, al netto della disponibilità di tutti, farà scendere in campo i titolari o le riserve? E queste ultime sono più forti o meno forti dei titolari? Le riserve, in quanto tali, sono un cuscinetto di garanzia rispetto a una situazione di approvvigionamento ordinario e regolare che permetta la distribuzione dei MWh necessari a imprese e famiglie. Qui invece si stanno festeggiando le riserve piene come se fossero la garanzia di un inverno al caldo e di fabbriche che lavorano: non è così. Perché basterà una stagione fredda più rigida dell’ultima o, volesse il cielo, un’attività economica di fine anno più sostenuta del previsto per metterci in crisi. O, quantomeno, per vedere imprenditori e famiglie farsi quotidianamente il segno della croce, nella speranza che il giorno dopo tutto sia regolare.
Stiamo ragionando come se avessimo flussi ordinari garantiti e riserve piene. Invece abbiamo (quasi) solo queste ultime, mentre i flussi ordinari non sono affatto garantiti: né dal LNG statunitense, né dal gas algerino, né da quell’Azerbaijan. E signori, questo grafico parla chiaro, chiarissimo: dopo l’Ungheria, è l’Italia il Paese che in caso di stop totale delle forniture da Mosca pagherà il prezzo più alto in assoluto a livello di perdita di Pil.
Si ragiona su un best case scenario di -0,6% su base annua fino a un worst case scenario addirittura di -5,7%. Peggio di noi a livello di dipendenza e di impatto sulla crescita economica, solo l’Ungheria appunto. La quale, infatti, è stata l’unica a opporsi all’accordo in sede europea. In base alle stime del Fmi, l’Italia crescerà del 3% quest’anno ma solo dello 0,7% nel 2023. Ora, prendendo per buono il dato per il 2022, cosa accadrebbe al nostro tasso di crescita del prossimo anno, se i calcoli geopolitici ed energetici del Governo uscente fossero sbagliati e applicassimo allo stop al gas russo uno scenario intermedio di impatto, diciamo un -3%?
Insomma, possiamo rivoltare la situazione come vogliamo. Possiamo imbellettarla. Possiamo scomodare tutte le difese dei principi occidentali e delle democrazie che vogliamo. La battaglia delle sanzioni si è tramutata nel rafforzamento dell’economia russa e della leadership di Putin e in un probabile Titanic per l’eurozona. Italia in testa, stante il livello di dipendenza dal gas di Mosca. E attenzione, perché quale prezzo stia già pagando la Germania alla strategia Usa-Ue-Nato è sotto gli occhi di tutti, basti pensare ai 15 miliardi potenziali che Berlino ha dovuto mettere sul tavolo per evitare l’insolvenza di Uniper. Soldi che, attenzione, servono pressoché unicamente a garantire la continuità del servizio di erogazione quotidiana, poiché le casse delle utility si erano svuotate alla velocità della luce proprio per i minori flussi dalla Russia da compensare con acquisti sullo spot market e prezzi da dissanguamento. Gli stessi prezzi che continuano ad aumentare. Se le dinamiche resteranno queste o, peggio, si aggravassero con una rottura totale dei rapporti con la Russia, cosa accadrebbe a Berlino? Dovrebbe mettere sul tavolo altri miliardi di denaro dei contribuenti per tenere in vita la rete di distribuzione ed evitare blackout, distacchi o razionamenti ancora più drastici e strutturali. E stiamo parlando della Germania.
Cosa potrebbe accadere al nostro Paese e alla sua economia, potenzialmente, se l’azzardo posto in essere dal Governo Draghi e festeggiato con entusiasmo degno di miglior causa dal ministro Cingolani dovesse rivelarsi tale?
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