Chissà per quanto tempo sarà necessario prendere per i fondelli i cittadini. Magari, sarà sufficiente far passare l’estate. O, forse, basterà che il Governo superi indenne lo scoglio di oggi al Senato. Una cosa appare certa da 72 ore a questa parte: l’asse fra Mario Draghi e il Quirinale è di quelli d’acciaio. E l’ipotesi di un Draghi-bis da far accettare a Camere e cittadini per via emergenziale, qualcosa più di una mera ossessione del centro-destra. Non a caso, il Covid già minaccia nuove restrizioni per la ripresa post-vacanziera. Ma di questo, ci sarà tempo di parlare più avanti. Ciò che famiglie e imprese è giusto che sappiano subito è che o si tratta con Vladimir Putin o ciò che attende il nostro Paese non è la recessione, bensì la depressione economica di lungo periodo. Magari non la stagnazione secolare ma certamente una lost decade. E a dirlo non è il sottoscritto, bensì l’Enea e il Presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli.
Il piano di emergenza energetica a colpi di razionamenti, semafori spenti e acqua calda a orari fissi previsto dal Governo consentirebbe, se applicato rigidamente e se rispettato alla lettera da tutti, circa 2 miliardi di metri cubi di gas risparmiato all’anno. Di per sé, trattandosi dell’Italia, un qualcosa di impossibile. C’è un problema, però. Se anche questo Paese diventasse di colpo la Svizzera e i suoi cittadini dei fulgidi esempi di senso civico, volendo diversificare e chiudere i conti con il gas russo – come ha ribadito non più tardi di martedì Mario Draghi, parlando alla stampa estera – occorre trovare altri 27 miliardi di metri cubi di gas. Perché le nostre importazioni dalla Russia equivalgono appunto a circa 29 miliardi di metri cubi all’anno. Insomma, l’austerity che i giornali ci spacciano come piano risolutivo, servirebbe quanto una caramella balsamica contro la polmonite.
E Davide Tabarelli, intervistato da RaiNews 24, è andato anche oltre: anche le fonti alternative finora rintracciate, dai rigassificatori offshore alle importazioni dall’Africa, necessitano prima di diventare operative e disponibili almeno un anno, forse un anno e mezzo. Nel frattempo, cosa si fa? Scorta di candele? Le fabbriche le chiudiamo in massa, visto che non ci sarà sufficiente energia? E anche la pista del carbone come fonte alternativa ed emergenziale per la produzione di elettricità sconta un’impennata dei prezzi che lascia poco tranquilli, visto che come mostra questo grafico proprio ieri i futures del Coal Newcastle hanno sfondato il record assoluto di 400 dollari per tonnellata, arrivando all’ora di pranzo a 432.
Ma è quest’altro grafico che deve farci riflettere. Poiché equivale al bambino che grida la nudità del Re.
Partendo dal presupposto che l’Italia, intesa come sistema Paese di imprese e famiglie, ha settato le sue necessità su quella che possiamo definire quota 29, ovvero i miliardi di metri cubi di gas che la Russia ci ha finora garantito ogni anno, occorre trovare alternative credibili, affidabili e di lungo periodo. Ad esempio, il Governo fino a ieri ha millantato le piste del gas LNG statunitense e di quello algerino come vere e proprie ancore di salvezza. C’è un problema, però, al netto degli strani incidenti domestici che hanno già ridimensionato la portata delle forniture di gas liquefatto americano. Soltanto rispetto alle prezzature dello scorso marzo, a guerra appena scoppiata, quelle di luglio vedono il costo del gas per megawatt/ora in area 100 euro fino almeno al primo semestre del 2024. Ovvero, tre volte il costo che normalmente pagavamo alla Russia prima della crisi Ucraina.
Certo, le valutazioni attuali già fibrillanti a causa della chiusura di Nordstream restano del 30% inferiori al picco della scorsa primavera, ma a farci paura, soprattutto alla luce del nulla totale rappresentato da piano di emergenza e alternative di approvvigionamento, è quel prezzo che non scenderà sotto la tripla cifra per almeno due anni. Un break-even troppo alto per le famiglie, a meno di un impegno strutturale del Governo per calmierare il prezzo delle bollette (difficile, stante il no di Mario Draghi a nuovo scostamento), ma soprattutto per le imprese, grande industria in testa. Significa perdere competitività. Produzione e quote di mercato. Significa una coltellata al cuore del Pil. E un’implicita dinamo per l’aumento della disoccupazione e con essa, in prima istanza, delle sofferenze bancarie. Insomma, il solito loop che zavorra il sistema Italia.
A fronte di uno scenario simile e di una Germania mai in crisi sistemica come oggi dalla Riunificazione, perché il presidente del Consiglio chiude la porta in maniera così drastica a un minimo sindacale di ricorso al deficit? La Spagna garantisce treni locali gratis per tre mesi, al fine di venire incontro al caro-energia. Qui siamo alla presa per i fondelli del Patto sociale, ovviamente con i sindacati e Confindustria plaudenti. Perché quel tipo di riforme si fanno a economia stabile o almeno stabilizzata e a inizio legislatura, parlare di aumenti salariali e cuneo fiscale in questo momento e alla luce della realtà energetica che ci attende da qui a poche settimane equivale a indire una riunione di famiglia per decidere di che colore ridipingere le pareti della casa che sta bruciando, invece che prendere i secchi e chiamare i pompieri.
Qualcosa non torna, mi spiace. E il fatto che il commissario Ue all’Economia, l’ex Premier Paolo Gentiloni, continui a ripetere come un disco rotto come i Paesi troppo indebitati debbano evitare ulteriore carico di deficit (incurante di come proprio l’incapacità totale di Commissione e Bce di leggere la realtà la scorsa primavera ci abbia messo in questo guaio estremo) fa pensare. Esattamente come quell’ora di colloquio al Quirinale dopo il non voto di M5S alla Camera sul DL Aiuti. Uno strappo simbolico e già annunciato, immediatamente drammatizzato da Mario Draghi al massimo livello istituzionale. Poco importa che il prossimo anno si voti o meno, tanto anche i sassi sanno che questo Paese è già commissariato dall’Europa nei fatti, quantomeno a livello di acquisti Bce per la sostenibilità dello stock di debito. Conta capire quanto profonda sia la ferita che il nostro sistema produttivo rischia di subire e, soprattutto, a chi possa fare comodo. Quantomeno, a livello di banchetto sulla carcassa di eccellenze sacrificate sull’altare dell’incompetenza. Nella migliore delle ipotesi.
Non so se lo avete capito ma qui siamo al punto di svolta, definitivo. E tutto si giocherà la prossima settimana, fra il 21 e il 22 luglio, un vero Rubicone per il futuro del nostro Paese. Prima il board Bce che ufficializzerà l’intervento sui tassi e sarà chiamato a offrire al mercato rassicurazioni concrete sul famoso scudo anti-spread e il giorno dopo la prova del nove per capire se, dopo i dieci giorni di manutenzione (al netto della pantomima della turbina canadese), Nordstream riaprirà i flussi o sarà davvero stop totale al gas russo, come anticipato da Ursula von der Leyen. E il fatto che il vertice europeo di emergenza sull’agenda energetica sia stato fissato solo per il 26 luglio, dice tutto sul livello di incompetenza o doppiogiochismo per conto terzi delle istituzioni Ue.
Stavolta c’è davvero poco su cui scherzare. Non a caso, Mario Draghi ha alzato decisamente toni e posta. Forte della trincea del Quirinale da cui lanciare l’offensiva.
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