Perché gli Stati Uniti sembrano intenzionati a rimuovere i dazi su alcune merci cinesi? Perché al G20 in Indonesia, il segretario di Stato statunitense si è lanciato in un corteggiamento spudorato del suo omologo cinese, incurante del fatto che quest’ultimo abbia simbolicamente voluto dedicare il primo, lungo bilaterale all’impresentabile Serghei Lavrov? Perché ancora una volta, piaccia o meno, la Cina sta per salvare il mondo. Nella fattispecie, sta per aprire le paratie e inondare il globo con nuova liquidità del suo impulso creditizio. Tradotto, Pechino garantirà al suo principale partner commerciale, gli Usa appunto, una via d’uscita prima dall’inflazione e poi dalla recessione ormai conclamata. Di fatto, spianando la strada al ritorno a una politica monetaria espansiva che i futures già prezzano per il primo trimestre 2023, al netto delle minacce a vuoto della Fed. 



Eh già, Pechino – preso atto dei numeri poco confortanti dell’economia, dovuti principalmente alla politica Zero Covid che ha paralizzato la produzione – ha dato via libera alle autorità locali affinché anticipino all’autunno le emissioni di bond previste per il finanziamento dei progetti infrastrutturali del 2023. Nei fatti, qualcosa come 220 miliardi di dollari stanno per essere iniettati nelle vene di un’economia zavorrata dalla crisi del real estate che le finora tiepide mosse della Banca centrale avevano fallito nel rianimare. Insomma, bando alle cautele, stop alle misure chirurgiche come il taglio dei tassi sui prestiti a lungo termine e via a una bella inondazione di credito. Nel pieno della farsa globale della normalizzazione del costo del denaro per combattere l’inflazione, la Cina opera il suo Qe sotto copertura. E lo fa nel momento più propizio in assoluto. Anche perché l’ultimo sondaggio di Bloomberg fra gli economisti parla chiaro: la crescita della Cina per quest’anno è prevista al 4,1%, ben lontano dal già ridimensionato 5,5% del Governo. Occorre stimolare. E in fretta. 



Ma attenzione, perché Pechino potrebbe essere alle soglie di un esperimento degno del dottor Frankenstein. Questo grafico mostra plasticamente come l’aumento dei casi settimanali di Covid stia parallelamente creando le condizioni per un nuovo regime di lockdown. Di fatto, si proseguirebbe con un congelamento – magari parziale e meno draconiano del precedente – dei consumi personali e produttivi, ma in contemporanea a quello che si presenta come un piano di stimolo tout court della stessa economia che si mette sotto formalina con lo stato di assedio sanitario. 

Un azzardo. Il quale potrebbe infatti godere di una sorta di sviluppo a macchia di leopardo. Alcune regioni del Paese hanno ottenuto via libera all’inizio di progetti infrastrutturali previsti inizialmente per il 2023, mentre altre sono ancora in stand-by su tempistiche precedenti. Non stupirebbe, quindi, se quelle stesse aree in rampa di lancio rimanessero miracolosamente esenti da nuovi focolai, mentre altre potrebbero garantire una compressione artificiale delle spese con nuovi lockdown, più o meno totali. Insomma, Pechino sta ancora una volta riattivando il suo impulso creditizio e lo sta facendo in base alla nuova teoria dei cicli emersa dal regime strutturale di Qe e tassi a zero globale: non più 5-6 mesi di scarto fra iniezione di liquidità cinese ed entrata in circolo nelle economie/mercati occidentali, ma circa 3 mesi di scarto. 



Di fatto, un primo vagito di ripresa ed entusiasmo made in China potrebbe interessare l’America attorno a fine ottobre e inizio novembre: giusto in tempo per il voto di mid-term e per operare da alibi per una fine anticipata del processo di normalizzazione dei tassi della Fed. Il quale già oggi ha tacitamente archiviato gli 11 ritocchi preventivati e viaggia al di sotto del 3,5% di benchmark dei Fed Funds inizialmente atteso per fine anno. 

Scossoni? Certamente, nulla arriva totalmente privo di conseguenze. Solo la Bce può pensare che esistano ancora pasti gratis. Ma il tutto appare decisamente gestibile, poiché la messe di liquidità che Pechino si prepara a riversare nella sua economia è tale da operare uno shock che vede gli effetti positivi superare di gran lunga quelli collaterali. Diverso, però, è il conto politico che questa mossa della Cina presenterà agli equilibri mondiali, già in fase di totale ribaltamento e work in progress a causa della crisi ucraina. 

Dopo un’iniziale fase di tentennamento strategico, infatti, Pechino ha apertamente mostrato la sua solidarietà alla Russia, schierandosi al fianco di Mosca e condannando a più riprese l’aggressione Nato ai confini ex sovietici come ragione principale del conflitto. Di più, quanto emerso dalla riunione dei BRICS tenutasi proprio a Pechino non più tardi di due settimane fa ha mostrato platealmente all’Occidente come Cina, Russia e India siano capofila di un’operazione di logoramento e messa in discussione del sistema di relazioni globali basato sull’intermediazione del dollaro Usa. E questo grafico mostra plasticamente come Mosca abbia trovato in Pechino e Nuova Delhi due clienti fedeli e munifici nel garantire casse statali piene tramite l’export energetico. Di fatto, la decretazione di fallimento totale del regime sanzionatorio occidentale. 

Insomma, quell’apertura dell’Amministrazione Biden sui dazi rischia di tramutarsi in un cambio di narrativa tanto drastico quanto inevitabile nei rapporti di forza. L’America deve superare una recessione auto-indotta e Biden un voto di mid-term che lo vede come vittima sacrificale e annunciata, quindi nel breve termine Washington potrebbe strategicamente fingere di non contemplare gli effetti politici del suo atto di riconoscimento. Chi invece si troverebbe totalmente spiazzata sarebbe l’Europa, schieratasi in maniera tanto plateale quanto parossistica sulle posizioni oltranziste della Nato verso Russia e Cina e oggi costretta a pagare la totale assenza di una politica estera in grado di leggere i mutamenti in tempo reale. E con la crisi energetica pronta a scatenare l’armageddon. 

Casualmente, però, da quando la Germania ha dovuto prendere atto del tracollo delle sue previsioni macro, in testa la sparizione epocale del suo surplus commerciale, Berlino ha cominciato ad alzare paletti e opporre nein alle scelte pro-Kiev di Bruxelles, ad esempio ponendo il veto sul nuovo pacchetto di aiuti a breve termine da 9 miliardi proposto dalla Commissione, ridimensionato per quella ragione a 1 solo miliardo. Giovedì, poi, il blocco del prestito da 1,5 miliardi della Bei da parte della medesima Commissione, la quale chiedeva garanzie sul 70% dell’ammontare e non il 9% previsto dalla Banca europei per gli investimenti. Di fatto, un auto-boicottaggio. 

Attenzione, tutto sta sviluppandosi e cambiando alla velocità della luce. E, piaccia o meno, è il blocco dell’Est ad apparire in netto vantaggio. Con la Cina al timone. 

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