Trasformare il Pnrr nella nuova Cassa del Mezzogiorno, quantomeno nelle intenzioni e negli slogan a presa rapida. La disperazione di un leader la sia intuisce spesso e volentieri dalle scelte che compie nei momenti di estrema difficoltà: quando ricorre ai totem, vuol dire che arranca. E se a Washington ha voluto aprire la conferenza stampa con un richiamo molto social alla necessità di aumentare e non diminuire gli investimenti in fonti rinnovabili, nonostante il momento terribile sul fronte energetico, a livello interno Mario Draghi ha deciso di trasformare il forum sul futuro sul Sud in corso a Sorrento in una pesca a strascico di facile consenso clientelare. Ovviamente, premurandosi di dire che è ora di finirla con i pregiudizi sul Sud.
Vallo a spiegare a quelle testarde delle cifre e delle statistiche, però. Alzi la mano chi, superati i 40 anni di età, non ha sentito almeno dieci volte annunciare un piano risolutore di investimenti per azzerare il divario fra Nord e Sud del Paese. Fin troppo facile. In compenso, ecco che proprio il tema dell’energia offre una sponda, poiché il Sud grazie alla sua collocazione geografica di porta di collegamento fra Africa ed Europa continentale potrebbe e dovrebbe diventare il quadrante strategico di una nuova politica di approvvigionamento. In primis, quello di gas, dopo gli accordi stipulati con Algeria e Angola e il mezzo pastrocchio diplomatico con l’Egitto.
Peccato che mentre Mario Draghi ripassava il suo bel discorso, l’ex ad di Snam dalle pagine di La Repubblica parlava chiaro: per i nuovi rigassificatori ci vorranno almeno tre anni. E a livello europeo, la strada dell’affrancamento da Mosca è decisamente lunga, stante la mancanza totale di stoccaggi comuni. Certo, il Pnrr offre questa meravigliosa opportunità multitasking: essendo un progetto tanto faraonico nella formalità delle cifre quanto assolutamente inconsistente a livello di pragmaticità di interventi e tempistiche, nessuno si permette di negare o mettere in dubbio a prescindere un annuncio o un’intenzione. La si lascia sedimentare, esattamente come si fa come certe bugie dei bambini, colti con la marmellata sulle dita ma intenti a negare anche l’evidenza. Prima o poi, si tradiranno. O lo farà il vaso di confettura vuoto.
Vuoto come le promesse fatte finora dal Governo. E che rischiano di peggiorare. E di molto. Perché al netto della mancetta da 200 euro per 28 milioni di italiani, attenzione proprio al continuo ampliamento della platea dei beneficiari: spesso e volentieri, allargare serve proprio a dilatare i tempi. Perché più persone devono ricevere, più lo Stato ricorre al trucchetto dei tempi tecnici per scaglionare, rimandare, rateizzare. Insomma, a occhio e croce, a metà giugno potrebbe esplodere il bubbone del bonus inflazione in perfetto stile ristori da pandemia: qualcuno lo avrà ricevuto, molti altri no. E saranno però richiamati all’ordine: il Governo ha fatto i salti mortali e tassato quei cattivoni inquinatori dei giganti dell’energia per pagarvi tre stecche di sigarette e voi avete anche da ridire per un pochino di ritardo nell’erogazione? Altro totem. L’ennesimo.
Questo Governo ormai respira a fatica. Finge di stare bene, accenna a patetiche corsette sul posto come la trasferta a Washington o il simposio di Sorrento, ma tutti sanno che ormai il conto alla rovescia verso il voto è iniziato. Lo spoiler delle amministrative ci dirà il quantitativo di sangue elettorale che verrà versato, dopo tanti mesi di convivenza forzata stile Guerra dei Roses. E il rischio di un epilogo stile Attrazione fatale, una volta che si sia detti addio. Perché giova ripeterlo: a Washington, al netto delle reali finalità del viaggio che restano ovviamente riservate e segrete, Mario Draghi ha incassato un due di picche clamoroso sul tema del tetto di prezzo al gas. Guarda caso, nonostante mezza Europa abbia aperto conti in rubli presso Gazprombank, il Cremlino ha deciso proprio ora di alzare ulteriormente l’asticella della sfida, giocando con i rubinetti della pipeline Yamal-Europe. Pensate che non ci sia alcuna correlazione fra la delusione americana legata all’alternativa del gas LNG per l’Europa e la scelta russa di forzare i termini dello scontro, spostandolo chiaramente su un altro asse che contempli anche l’azzardo scandinavo di adesione-lampo alla Nato?
Nel mezzo, l’Italia. Il ventre molle, dove il Copasir perde tempo con il giallo degno di Una pallottola spuntata delle spie russe nei talk-show, mentre nella realtà i francesi fanno shopping bancario in ossequio al Patto del Quirinale. Non vi pare che qualcosa stoni, non vi pare che vi sia un clamoroso cortocircuito fra priorità? Ora, poi, l’azzardo terminale: se davvero Roma continuerà a proporsi come capofila e architrave della linea atlantista in seno all’Ue, quella che ieri ha visto Josep Borrell annunciare altri 500 milioni di stanziamento per armi pesanti a Kiev, rischiamo davvero di entrare nel mirino del Cremlino. E non con gli attacchi hacker, bensì con interventi drastici di stop totale a investimenti e interscambio, magari con coté di congelamento degli assets italiani operanti in Russia. E nel pieno del tentativo di sganciamento di Unicredit da quel mercato.
Il Governo ormai sta cercando soltanto un alibi credibile per abbassare il sipario. Attenzione a non strapparlo, però. Perché come confermato dall’International Energy Agency, l’export russo di energia nei soli primi 4 mesi di quest’anno ha già incamerato entrate fiscale per il budget federale di Mosca pari alla metà dei 9,5 trilioni di rubli messi a bilancio per l’intero 2022. Mosca ha quindi un cuscinetto per resistere e persino per affrontare qualche settimana di azzardo nella contrapposizione. Noi no. Ma se volete, consolatevi pure con la nuova Cassa del Mezzogiorno che Mario Draghi vorrebbe far pagare all’Ue. Le risate di Berlino si sentono fino a qui.
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