Quando persino La Repubblica è costretta a dire la verità significa che siamo messi male. E nella sua corrispondenza dalla Germania, il quotidiano con l’elmetto ha dovuto ammettere che il Bundestag ha trattato il presidente Zelensky come si fa con una scolaresca in visita: grandi sorrisi che mal celano il fastidio. E, soprattutto, non appena terminata l’incombenza, business as usual. Perché il povero Zelensky, come tutti i doppiogiochisti e gli agenti provocatori, conosce i rischi del mestiere. E riconosce i sinistri scricchiolii del ghiaccio sotto i piedi, quando la lastra diventa sempre più sottile e la caduta è ormai ineluttabile, quasi una questione di minuti.
E proprio per questo ha giocato la carta disperata del presentarsi in casa d’altri con le scarpe sporche di cacca del cane, in modo da garantirsi l’attenzione: Parlate tanto ma alla fine comprate il gas russo, perché vi interessa soltanto la vostra economia, la sua accusa al Parlamento tedesco. Per una volta, come nel caso di Repubblica, anche il presidente ucraino è stato costretto all’atto estremo di dire la verità. E il Bundestag lo sa come stanno le cose. Quindi, applausi a scena aperta. Poi, una volta conclusa la call, tutti a cercare un modo per evitare la recessione. Che, indice Zew alla mano, è già nei fatti. Garantita per il primo trimestre, quasi certa e addirittura con prospettive di peggioramento nel secondo.
Perché Christine Lagarde ha parlato chiaro, mentre a Berlino andava in scena la recita a soggetto dello Zelig post-sovietico: l’inflazione quest’anno nell’eurozona potrebbe arrivare al 7%. Oggi siamo al 5,9%, quindi occorre fin da ora mettere in conto un inferno macro che ci accompagnerà fino all’inizio dell’autunno. Non a caso, Berlino ha immediatamente sposato la linea tipica dei socialdemocratici al governo: copiare i loro omologhi statunitensi, primatisti mondiali nel compiere scelte impresentabili ma con l’abito buono. Perché stanziare 100 miliardi di euro in spese militari è qualcosa che la Germania non vide nemmeno negli anni della Guerra Fredda, quando la capitale era divisa da un Muro oltre il quale si trovava nientemeno che un avamposto reale dell’Unione Sovietica. La Germania ha deciso che occorre un bel po’ di warfare per rianimare un Pil che le sanzioni stanno già prendendo a schiaffi. E che nei mesi prossimi presenterà un conto da sprofondo totale.
È con vivo interesse, quindi, che occorre prepararci al trasferimento in casa nostra della pantomima: il 22 marzo, infatti, il presidente Zelensky si collegherà con le nostre Camere, in quello che già oggi si prefigura come uno dei momenti più bassi e patetici della storia repubblicana. Quantomeno, a livello di servilismo. Perché sicuramente verremo lodati per il nostro impegno e la nostra durezza verso la Russia. Il ministro Franceschini ha già detto che l’Italia ricostruirà il teatro di Mariupol, sotto le cui macerie stanno saltando fuori superstiti in numero addirittura miracoloso. Forse perché non è stato affatto bersagliato dai russi, spietati cecchini di civili ma danneggiato in maniera controllata da quei galantuomini tutti svastiche e rune del Battaglione Azov? Come avrete notato, quando la favoletta della strage di civili nel tempio della cultura ha mostrato i suoi limiti di narrativa, è sparita dalle prime pagine. D’altronde, sempre restando in casa editoriale di Repubblica, l’altro giorno l’Huffington Post ci spiegava in maniera molto sapiente come l’Ucraina abbia bisogno dei nazisti per combattere la Russia ma questo non significa che sia un Paese nazista. Non sto scherzando, l’arrampicata libera sugli specchi della stampa con l’elmetto è arrivata anche a questo, roba degna di una scena di Cliffhanger. Anzi, vi agevolo il lavoro e vi fornisco il link, perché certe perle meritano di essere lette. Io non l’ho fatto, mi è bastato il titolo. Perché il contenuto è talmente sottile e sopraffino da richiedere l’abbonamento e sinceramente il mio feticismo non arriva fino a quel punto. Gli stessi media che gridano al ritorno delle SA all’amatriciana ogni volta che Casapound fa una scritta con lo spray sul muro, si lancia in contorsioni masturbatorie per sdoganare neo-nazisti (veri) come male necessario per sconfiggere il Male supremo che sta al Cremlino. È gente pericolosa. Chi sostiene certe tesi, non il battaglione Azov. E il buon Zelensky lo sa.
Sa di aver pattinato troppo a lungo su quel ghiaccio così sottile, di aver dato vita a piroette eccessive e cambi di direzione il cui attrito ora presenta il conto. Perché ciò che non vi dirà la stampa con l’elmetto è quanto ha dovuto ammettere dopo un anno e mezzo di negazione totale nientemeno che una Bibbia del politicamente corretto mondiale come il New York Times: l’intera vicenda del famoso laptop di Hunter Biden, il figlio del Presidente Usa, bollata come propaganda del Cremlino da tutta l’armata mediatica Usa alla vigilia del voto presidenziale del novembre 2020, è invece dannatamente e totalmente vera. E parlano chiaramente i files contenuti in una cache, una serie di e-mails che proprio ora il quotidiano newyorchese ha potuto visionare e che sarebbero realmente partite da quel laptop, poi apparentemente abbandonato da Hunter Biden in un negozio di riparazioni pc nel natio Delaware. Quando nell’ottobre del 2020 fu l’altro quotidiano della Grande Mela, il New York Post, a portare alla luce gli affari di famiglia dei Biden in Ucraina e Cina, resi possibili dal ruolo politico di Joe in seno all’Amministrazione Obama, l’intero impero mediatico Usa si scagliò contro il giornale più vecchio d’America, bollando il suo lavoro come disinformazione russa. Insomma, esattamente quanto Repubblica e soci, talk-show unidirezionali in testa, stanno facendo oggi contro chiunque osi guardare in faccia la realtà, dal professor Orsini allo storico Franco Cardini e via dissentendo dalle veline Nato.
Cosa significa tutto questo? Semplice, la realtà comincia a emergere talmente prepotente da non poter più essere occultata sotto il tappeto. Come accaduto con Repubblica e la sua onesta corrispondenza dalla Germania. E come da tradizione progressista, quando il mare si gonfia, l’unica priorità è quella di trovare una scialuppa prima degli altri. Abbandonare la nave, insomma. Ovviamente, il fatto che il 22 marzo il presidente Zelensky si collegherà con le Camere a Roma farà in modo che su questa clamorosa ammissione del New York Times – con ciò che comporta potenzialmente a livello politico per il Presidente, soprattutto nell’anno del voto di mid-term – venga debitamente silenziata. Ma ormai, il rompete le righe è partito. Perché quando è una banca americana a ricevere i dollari per gli interessi sul debito russo nel giorno della scadenza del coupon e trasferisce quei fondi a un’altra banca londinese, affinché raggiungano puntualmente i creditori, persino l’enorme pantomima del default russo sparisce di colpo dai giornali.
È accaduto giovedì. La suprema ipocrisia dell’Occidente è stata smascherata con un semplice bonifico e per la non certo stratosferica cifra di 114 milioni di dollari, regolarmente accreditati da Mosca a JP Morgan e da questa alla filiale londinese di Citigroup. In dollari. Alla faccia delle sanzioni e dell’estromissione da SWIFT. Svegliatevi, prima che sia tardi.
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