Da quando il rating di Huarong, il gigante di Stato dell’asset management, già finito al centro di uno scandalo che ha visto il suo ex presidente giustiziato per corruzione, è stato declassato da Fitch per aver prorogato per la seconda volta il pagamento degli interessi sul debito, i dubbi sulla solidità delle istituzioni finanziarie in Cina sono ulteriormente aumentati.
Huarong molto probabilmente rappresenta per il sistema finanziario una realtà to big to fail, ed è l’ennesimo banco di prova per i regolatori cinesi, che ormai quotidianamente devono mettere alla prova dei fatti il conseguimento della “stabilità” del sistema, che per il governo cinese ha una valenza tanto ideologica quanto strettamente economica.
Alla luce di questo episodio che palesa una crescente instabilità finanziaria, possiamo aggiungere elementi alla comprensione dell’attacco di Jack Ma ai regolamentatori cinesi condotto alla vigilia della colossale Ipo di Ant Group, la diramazione fintech di Alibaba. A molti osservatori l’intervento di Jack Ma è sembrato ricordare la classica recriminazione di un imprenditore nei confronti di chi regolamenta troppo un mercato in crescita, ma in realtà investe direttamente le scelte del governo cinese, che non si limita a porre sotto controllo il sistema finanziario, ma è interessato a governarne l’espansione e a determinarne gli obiettivi.
Da quando in Cina sono stati introdotti nuovi strumenti finanziari e forme di pagamento che di fatto hanno reso obsoleto il contante, bypassando l’utilizzo delle carte di credito, si è creata una crescente confusione fra sistemi di pagamento e sistemi di credito, il cui finanziamento rimane ancora legato a dinamiche poco chiare, sulle quali influiscono il peso delle varie realtà locali e le ambizioni delle fazioni interne del partito comunista. Realtà resa ancora più confusa dalla competizione fra banche e colossi digitali combattuta a colpi di immissione di liquidità nel sistema.
Il governo cinese non sembra volere e potere sterilizzare il rischio finanziario, ormai sistemico, e quindi rinunciare alla propria crescita. La Cina ha bisogno della finanza locale e globale e sono molti i gestori di fondi a scommettere che la proprietà straniera delle obbligazioni bancarie cinesi raddoppierà nei prossimi anni, avendo già superato per la prima volta il trilione di yuan (156 miliardi di dollari) ad aprile, un dato a cui va aggiunto il fatto che l’inclusione della Cina nell’indice Ftse World Government Bond Index, prevista per ottobre, è destinata a generare fino a 150 miliardi di dollari.
Uno scenario in cui convivono in modo contraddittorio le criticità del sistema, la crisi di colossi di Stato come Huarong e la crescente attrattività delle obbligazioni bancarie di alta qualità garantite dal governo. Una situazione che verrebbe spiegata dal fatto che i regolamentatori cinesi non sembrano farsi troppi problemi a bastonare i protagonisti della propria economia pur di generare un clima di fiducia e stabilità che possa attrarre il flusso di capitali internazionali.
Al momento sembra essere rientrato il panico che negli ultimi mesi era cresciuto in relazione all’aumento delle insolvenze sui titoli cinesi, ma ciò che rimane sul tavolo è il preoccupante livello del debito delle imprese, fra le quali spiccano quelli delle imprese pubbliche e quelli delle autorità locali, sulle quali finiscono per gravare il costo delle infrastrutture e dei servizi sociali. Due aspetti strettamente connessi: le imprese si sono indebitate per finanziare il loro salto tecnologico e con acquisizioni strategiche sui mercati esteri e i governi locali – spesso condizionati dalla volontà delle fazioni del partito e con rapporti non sempre limpidi con le banche territoriali – hanno dovuto gestire l’impatto di una crescita tumultuosa e le aspirazioni di una classe media sempre più consumistica.
Al momento è difficile ritenere che tutto ciò possa sfociare nel breve periodo in una grave crisi finanziaria, ma probabilmente si invererà in un grande piano di riforme fiscali che finiranno per impattare sullo stile di vita del consumatore cinese. L’instabilità e le criticità del sistema finanziario cinese non possono avere come cura un ulteriore incremento del debito, ciò finirebbe per intaccare la credibilità dell’economia e quindi la sua attrattività per i capitali esteri. L’unica carta che rimane al governo cinese è una politica finanziaria restrittiva, le cui conseguenze si avvertirebbero sul piano dei consumi e su quello dei governi locali, che nelle intenzioni di Pechino dovrebbero essere meno dipendenti dal governo centrale nell’allocazione dei fondi.
A questo punto non rimarrebbe che chiedersi come risponderebbero la classe media cinese, ormai abituata a standard di consumo occidentali, e la popolazione delle province interne, in cui il coefficiente di Gini registra elevati livelli di diseguaglianza. Uno scenario le cui conseguenze potrebbero rappresentare una sfida per la tenuta sociale del paese e il consenso del Partito comunista.
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